LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE DELL'INFINITO"
creata il 4 settembre 2007 aggiornata il 19 maggio 2011

 

 

L’infini est. Il est là. Si l’infini n’avait pas de moi, le moi serait sa borne, il ne serait pas infini; en d’autres termes, il ne serait pas. Or il est. Donc il a un moi. Ce moi de l’infini, c’est Dieu.

L'infinito è. E' lì. Se l'infinito non avesse dentro di sé un io, l'io sarebbe il suo limite [fuori di sé] e non sarebbe infinito. In altri termini, non esisterebbe. Ma esiste. Dunque possiede un io dentro di sé. L'io dell'infinito è dio. V. Hugo, I miserabili, Libro I, Cap. X.

Le renversement que comporte notre expérience met en place au centre une mesure incommensurable, une mesure infinie, qui s’appelle le désir.

Il capovolgimento che la nostra esperienza comporta mette al centro una misura incommensurabile, una misura infinita, che si chiama desiderio. J. Lacan, Le Séminaire. Livre VII. L'éthique de la psychanalyse (1959-1960), Seuil, Paris 1986, p. 364.

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Vieni da qualche pagina dove si menziona l'infinito. Questa pagina è di servizio. E' a servizio dell'infinito. L'infinito non è una metafora poetica, per dire lo smisuratamente grande. (Metafora quanto mai ambigua, perché confonde l'infinito con l'illimitato, quando non è addirittura falsa, perché anche lo smisuratamente grande è limitato). L'infinito è un oggetto. E' l'oggetto non categorico della scienza moderna. Questa pagina vuole giustificare l'introduzione in psicanalisi della nozione di infinito. L'oggetto infinito, caratteristico della scienza moderna (cartesiana), è concepito come cardine della relazione del soggetto con l'oggetto del desiderio.

PREAMBOLO SEMIFILOSOFICO

L’infinito è un oggetto sui generis.
Non si rappresenta, quindi è impensabile per un Heidegger (v. in Holzwege, L’epoca dell’immagine del mondo).
Non si consuma, quindi è impensabile per un Baudrillard (v. Le système des objets).
Che fare con l’infinito?
Il primo che si pose la questione – seppure non in questi termini – fu Cartesio.
Il dubbio cartesiano sorge nel momento in cui il soggetto si interroga sulla propria posizione di fronte all’oggetto. (La posizione nel fantasma, direbbe il lacaniano.) Se non posso rappresentarlo attraverso l’idea (e allora decade Platone), se non posso usarlo nella pratica (e allora decade Aristotele), che ci sto a fare io? Ne va della mia esistenza. Esisto io?
La conclusione cartesiana è positiva, ma riduttiva. Io esisto perché dubito.
Si può facilmente estendere la portata argomentativa del dubbio dal soggetto finito all’oggetto infinito.
L’oggetto infinito è l’oggetto per cui essenzialmente il soggetto dubita.
È numerabile l’infinito?
No, o non solo, perché esiste l’infinito continuo che non è numerabile.
È continuo l’infinito?
No, o non solo, perché esiste l’infinito “superiore” delle applicazioni del continuo su se stesso, che non è continuo.
E così via lungo la gerarchia cantoriana degli infiniti costruiti per esponenziazione successiva dell’infinito già raggiunto, cioè passando dall’infinito degli elementi all’infinito delle sue parti, che sono più dei suoi elementi (v. argomento diagonale).
Ma questa via è infinita nel senso antico e metafisico di illimitata: non esiste limite o termine ultimo che blocchi il procedere infinito (v. Lucrezio e l'argomento della lancia). Quindi l’infinito non si rappresenta in termini di una deduzione finita.
Si può usare, però, almeno in parte.
L’infinito numerabile serve per contare e l’uso non lo consuma.
L’infinito continuo serve per disegnare e l’uso non lo consuma.
L’infinito delle applicazioni serve per fare teoria, per esempio la teoria delle categorie, e l’uso non lo consuma.
Eccetera. Senza contare che il discorso si può ulteriormente approfondire, passando dal livello cardinale a quello ordinale. Quale ordinamento per l’infinito? L’infinito numerabile è diverso dall’infinito numerabile più uno, che è ancora infinito numerabile. Allora?
Tutto questo proliferare di punti di domanda, dimostra che con il dubbio si può operare. Basta un po’ di coraggio per superare l’inibizione scettica e si ottiene… la scienza moderna, che con l’infinito ci sa fare.
In un certo senso – e questo è un primo risultato semipositivo del preambolo semifilosofico – l’infinito non esiste come a priori, né come concetto razionale né come dato empirico. L’infinito non esiste neppure come fatto globale e onnicomprensivo, cioè come un universo. (E' una fallacia filosofica ricorrente confondere infinito e totalità.) L’infinito esiste localmente: esiste come costruzione locale. Freud parlerebbe di costruzione in analisi.

In fondo, l’infinito esiste poco. Tanto poco che è giustificato dubitare della sua esistenza. Tanto poco che la cultura umanistica – letteraria e storicistica – ha buon gioco a censurarlo. Tanto poco da compromettere l'esistenza dell'oggetto del desiderio, che incarna l'infinito per il soggetto, e la pratica di tale oggetto, la psicanalisi. Con un risultato evidente nella speculazione filosofica contemporanea: l'inibizione a pensare l'oggetto in generale, der Gegenstand überhaupt, secondo Kant.

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INTRODUZIONE ALL’INFINITO [NON RELIGIOSO ]

La matematica, d’altra parte, non ha soltanto un lato quantitativo, ma anche un lato qualitativo, messo in luce, ad esempio, in topologia e in teoria dei numeri.
Wolfgang Pauli, Moderni esempi di “Hintergrundphysik”, 1948.

La struttura algebrica più semplice per pensare l’infinito è il monoide.

Un monoide è formato da un oggetto – l’infinito, in questo caso – e da tutti i morfismi che lo trasformano in se stesso.
(Un monoide è la struttura algebrica caratterizzata da un’operazione associativa, dotata di unità destra e sinistra. In questo caso l’operazione associativa è la composizione di morfismi, f °g, che al morfismo g fa seguire il morfismo f. L’associatività semplifica le parentesi: f°(g°h) = (f°gh = f°g°h. L’unità u è tale che u°f = f°u = f, per ogni f.)

Se fossi lacaniano direi che anch’io ho un paradigma RSI.

R è il reale, l’oggetto infinito, inteso alla Lacan come ciò che non cessa di non scriversi. Ma è meglio intenderlo alla Veblen come oggetto non categorico, cioè tale da avere molteplici rappresentazioni o modelli non equivalenti.

I è la classe propria dei morfismi o rappresentazioni di tale oggetto in se stesso. (Una classe si dice propria se non appartiene come elemento a nessuna classe.)

S è l’insieme quoziente di I, rispetto a un’opportuna relazione di equivalenza R, che raggruppa nella stessa classe i morfismi equivalenti, S = I/R. Per esempio, si considerano equivalenti due morfismi f e g se sono iniettivi (cioè, a elementi diversi fanno corrispondere elementi diversi) e suriettivi (cioè, se f(R) = g(R) = R). (I/R è la partizione di I in classi di equivalenza disgiunte ed esaustive.)

Congettura del bosco. S è una classe propria.

[Dimostrazione congetturale. Sia S un insieme. Allora, I è l'unione degli x, con x appartenente a I/R. Quindi, tutti gli elementi x di I appartengono a una classe, chiamiamola C(x). La loro unione I è inclusa nell'unione delle C(x). Allora si può dire che I appartiene alla classe in cui è incluso? Questa è una bella congettura! Se fosse vera trasformerebbe la congettura del bosco in teorema. Ma dubito di potere arrivare a dimostrarlo. Per la distinzione tra inclusione e appartenenza vai alla prima lezione del seminario di Asciano in Sapere dello spazio.]

Semplificando molto, il paradigma RSI-infinito è formato da tre componenti.

Il reale R è l’infinito, un oggetto né solo empirico né solo razionale - intuitivo? - ma indispensabile per orientarsi sia nel campo empirico, sia in quello razionale, sia a livello conscio, sia a livello inconscio.

L’immaginario I è la classe delle rappresentazione dell’infinito in se stesso. Include propriamente il narcisismo di Freud e lo stadio dello specchio di Lacan, in quanto contiene le rappresentazioni di quel particolare infinito che è il corpo. Ma l’immaginario non si riduce ai rapporti narcisistici e speculari con l'altro. Esso comprende tutti i rapporti oggettuali, consci e inconsci. Non esiste inconscio senza oggetto - va ricordato ai fenomenologi che si gingillano con l'inconscio, riducendolo alla funzione dell'altro e dimenticando l'oggetto.

Il simbolico S è la classe delle classi di equivalenza in cui è ripartito l’immaginario. Ogni classe di equivalenza è un significante. L’estensione di una classe di equivalenza è il significato del corrispondente significante. I significanti sono punti degli spazi topologici che studieremo (Vai alle Lezioni del Seminario di Asciano).

Tra significato e significante non c’è rapporto diretto. (Vai alla pagina su De Saussure). I rapporti tra significante e significato sono mediati dalle relazioni di equivalenza tra rappresentazioni dell’infinito in se stesso. In generale tali relazioni di equivalenza sono molteplici. In corrispondenza, si deve parlare di differenti – infinite – dimensioni simboliche, non di una sola. Propriamente il paradigma RSI-infinito è RSiI.
Una schematizzazione della struttura è data dalla seguente figura

(Ricorre qui, attraverso l’indice i, una concezione junghiana del simbolico, come sintesi provvisoria di aspetti non ben saputi, di cui si sa tuttavia che godono di una certa simmetria. In questo senso, in accordo con Wolfgang Pauli, tutta la matematica è simbolica. “Ha talento matematico chiunque riconosca che i segni matematici hanno valenza simbolica”, Moderni esempi di “Hintergrundphysik”. Il termine “simbolico” è ormai entrato nell’uso e va accettato. Ciononostante, preferirei parlare di “falso”, inteso epistemicamente non come contrario di “vero”, ma come meno ben saputo, cioè congetturale. Cfr. il mio Sul valore del falso. Per gli amanti delle etimologie - con una raccomandazione di prudenza - faccio notare che “congettura” sta a “simbolo” come l’etimologia latina del primo – cum jicio – sta all’etimologia greca del secondo – sum ballo. Entrambi, congettura e simbolo, “mettono insieme” cose di cui non sanno bene il contenuto. Entrambi, secondo la mia concezione, sono dei falsi.)

In un certo senso, l’introduzione della nozione di non categoricità rende secondarie le distinzioni tra teorico e pratico, conscio e inconscio, empirico e razionale. Al tempo stesso svuota di importanza la nozione di psicoterapia e di clinica, intesa come scienza dei casi clinici. In dettaglio, il conscio corrisponde a una particolare forma di categorico, inteso come ciò che è riconducibile all’uno, mentre l’inconscio è il non categorico, inteso come ciò che non è riconducibile all’uno. Detto in termini più filosofici, il conscio è il singolare, l’inconscio il plurale. Tutta la teoria degli insiemi si può interpretare come riduzione al singolare, all’insieme di elementi diversi che risultano unificati da una proprietà caratteristica. Per contro, la meno sviluppata teoria delle classi proprie è un modo per trattare il plurale che non si unifica in alcun singolare. Le classi proprie hanno per me più appeal del singolare, che per un Goethe – in generale per i romanzieri – costituisce il vero universale. Non aveva tutti i torti Freud a lamentarsi che i propri casi clinici si scrivessero come novelle. Più delle singolari novelle cliniche si avvicinano alla verità dell’inconscio la sincronicità e l’acausalità degli archetipi junghiani. Le prime sono figé nella loro singolarità, da cui a mala pena si smuovono con un commento adatto. Le seconde garantiscono sin dall'inizio la pluralità delle vie inconsce. (In collaborazione con Pauli Jung arrivò a concepire una dimensione probabilistica e indeterministica per la propria psicologia analitica. Benché teoricamente meno chiaro e distinto di Freud, Jung è meglio orientato scientificamente di Freud.)

l punto da ritenere delle suddette elucubrazioni è che tutte le considerazioni che hanno diritto di cittadinanza all’interno del paradigma RSiI sono qualitative. Lo faccio notare contro eventuali obiezioni di fenomenologi, per i quali la matematica è un fatto essenzialmente quantitativo, inadatto a trattare la questione qualitativa del soggetto.

Il mio paradigma RSI-infinito, a differenza di quello lacaniano, non è borromeo. Se togli l’anello R o l’anello I, il monoide si disfa, ma se togli S, il monoide resta.
Già quindici anni fa, in Anoressia, sintomo e angoscia (1994), (pp. 91-92) produssi una struttura a tre registri non borromea: il toro a specchio. Lì il registro non borromeo era I. Ai miei futuri biografi il compito di stabilire le ragioni della mia preferenza per strutture non borromee.
Mi piacerebbe che i miei biografi tentassero una spiegazione a partire da quella che considero l’esperienza fondamentale del discorso analitico: l’esperienza, che non esito a definire paradossale, dell’infinito. La quale non è un’esperienza meramente empirica – non si riduce all’esperienza dell’analisi personale, per altro opportuna – e non è neppure un risultato della pura speculazione razionale – tanto meno si riduce alla lettura di qualche testo sacro. L’infinito è un’esperienza collettiva non codificabile definitivamente come “una esperienza”. Negli ultimi secoli, lungo concatenazioni di pensiero assai diverse, risale agli Umanisti matematici del nostro Rinascimento, a filosofi come Giordano Bruno e agli scienziati che si sono mossi sulle orme di Galilei, sfidando la censura terroristica dell’ortodossia. L’infinito  è tuttora un’esperienza “non finita”. Se la psicanalisi vuole portare avanti questo “compito infinito”…

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Non si può dire che la nozione di categoricità, intesa nel senso tecnico della logica simbolica, sia diventata di dominio comune. Tuttavia, oggi si assiste a un movimento culturale generalizzato che va nella direzione del recupero del "non concettuale", inteso come qualcosa che non ha meno valore epistemico del "concettuale".

In campo psicanalitico una componente di questo movimento va nella direzione di indebolire la supremazia e l'autonomia del simbolico, che arriva fino a spalmarlo sull'immaginario. Non è una tendenza recente, anche se di recente si è rinforzata. Certo è la chiave interpretativa dei lavori di Jung sul simbolo. D'altra parte i lavori di Castoriadis sui fondamenti immaginari della politica segnalano che questa tendenza era attivamente presente anche negli anni Settanta. In campo lacaniano la tendenza all'asimbolia assume una configurazione particolare. Negli ultimi seminari si trovano in Lacan germi di questa evoluzione, precisamente nel modo di trattare l'oggetto-a come resto non concettualizzabile e non identificabile categoricamente in termini di significanti - puro non senso. E' come se il maestro si stesse in parte disaffezionando al proprio teorema fallologocentrico - pas de signifiant sans sujet - per prestare più credito alla verità dell'inverso: esistono soggetti anche senza significanti (senza identità). Paulo Barone ne parla in Lacan e noi, un saggio di prossima pubblicazione su "aut aut" nel numero espressamente dedicato a "Leggere Lacan oggi". Un tema analogo ho svolto al recente congresso di Firenze su Identità precarie (16 maggio 2009) sotto il titolo Più precario che identitario. Nel contesto delle scienze dell'ignoranza l'indebolimento del simbolico è una condizione necessaria per fare spazio intellettuale alla nozione di infinito. Per esempio, una logica binaria troppo rigida, come quella aristotelica o booleana, che è soddisfatta da una semantica di modelli a un solo stato epistemico, non è adatta a pensare l'infinito. Funziona meglio la logica intuizionista, la cui semantica - o ordinale alla Kripke o topologica alla Tarski (testo tedesco) - prevede modelli con un numero infinito di stati epistemici.

Per il mio biografo accludo il mio saggio del 1980 Note sulla struttura del simbolico, pubblicato sul numero 177-178 di "aut aut" dedicato a Lacan ("A partire da Lacan"). Vi si possono leggere gli annunci del superamento dell'ortodossia logocentrica del primo Lacan, che proponeva l'Altro simbolico come luogo trascendentale della Verità e della Legge. Il registro simbolico è presentato come luogo non categoricamente definito (non è un insieme), dove vige un regime oscillante di coincidenze e non coincidenze tra gli elementi costitutivi, i significanti. In termini psichiatrici, l'Altro è trattato come un disturbo del linguaggio, secondo le indicazioni dell'ultimo Lacan, che non parla più di linguistica ma di "linguisteria".

A tempo e a luogo. Note sulla struttura del simbolico.

All'interno dello stesso volume, un'interessante lettura politica dell'opera di Lacan è quella di Pier Aldo Rovatti, che analizza l'alternativa, intellettuale e pratica, tra sapere-padrone e saper-fare - il primo precostituito rispetto al fare, il secondo che si costituisce nel fare stesso - nel saggio

Per un uso di Lacan. Note su potere e sapere.

Per dare un'idea dei tempi passati, accludo la recensione di Giuliano Gramigna a quel numero di "aut aut"

Per fare buon uso dei maestri scomodi.

Infine, sempre comparso nello stesso numero di "aut au", segnalo il saggio

Il gioco impari. A proposito dell'epistemologia lacaniana,

di Sergio Benvenuto, il più anticartesiano dei miei amici, che presenta la psicanalisi come ortodossia - quindi come tecnica - e non come scienza, una concezione molto vicina a quella del magister Lacan e molto lontana da quella proposta in questo sito.

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