LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE LASCI CADERE IL LOGOS"
pagina creata il 12 marzo 2009 aggiornata il 15 febbraio 2011

 

 

Infatti, anche là dove manca il concetto,
a suo tempo si presenta la parola.
Con le parole si può litigare per benino,
con le parole si può preparare un sistema;
alla parola si può benissimo credere.
Alla  parola non si può rubare uno jota.

J. W. Goethe, Faust I (1808), Studio II. Scena con lo studente.

Il signor Palomar spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. Italo Calvino, Palomar, 1983.

Vieni da qualche pagina dove si polemizza contro il

Logocentrismo.

Come quella sul “categorico”, questa è una pagina di servizio.
Serve a chiarire in che senso in questo sito uso i termini “logocentrico” e “logocentrismo”, per esempio in riferimento alla dottrina psicanalitica del dottor Lacan.

In questo sito ho già affrontato il tema del logocentrismo nella prima lezione del seminario topologico di Asciano del settembre 2007, intitolata proprio La fallacia logocentrica. L'argomento della lezione è la dissoluzione del registro simbolico che consegue all'uso logocentrico indiscriminato della nozione di significante. In termini topologici elementari dimostro che, se si adottano i classici assiomi logici del logocentrismo forte (aristotelico o hegeliano): principio di identità (A è uguale ad A), principio di non contraddizione (A è diverso da non A) e principio del terzo escluso (è sempre vero o A o non A) , lo spazio simbolico acquisisce una topologia sconnessa (addirittura, totalmente sconnessa). A molti il teorema topologico può sembrare controintuitivo, perché a scuola (al mio glorioso liceo classico Giovanni Berchet di Milano, per esempio) ci hanno insegnato che il logos è il mito fondatore della civiltà occidentale, che connette razionalmente tutto con tutto all'interno di una legalità superiore (trascendente o trascendentale) e produce quell'unità simbolica, che è il vanto della nostra cultura. Nessuna connessione, invece, e nessuna unità. Il logocentrismo disconnette e disunisce. Arrivando al limite della contraddizione, l'eccesso di logos polverizza l'universo simbolico.

Ho ulteriormente approfondito l'analisi sulla struttura logica del logocentrismo nella pagina

Il tempo epistemico prescientifico,

dove propongo l'assioma modale:

Se p è vero, allora p è necessario,

come fondamento logico del discorso logocentrico, che è al tempo stesso eziologico e deterministico senza essere meccanicistico.

In questa pagina, che è subordinata e funzionale a tutte le altre pagine del sito, tengo un discorso meno formalizzato e più filosofico. La cornice entro cui mi muovo è il saggio di Walter Benjamin, Sul linguaggio in generale e sul linguaggio dell’uomo (1916) (Walter Benjamin, “Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen”, in Gesammelte Schriften, vol. II-1, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 140-157), che allego nella mia traduzione. Con una precisazione doverosa. Il riferimento a Benjamin non significa che ne condivida le tesi. Anzi, direi che in questa caso prendo le distanze da Benjamin. Il mio riferimento in teoria della lingua rimane sempre e solo De Saussure, che è il fondatore della linguistica scientifica e non è logocentrico. Le posizioni di Benjamin, invece, sono filosofiche e, appunto, logocentriche. Se faccio riferimento ad esse è per amore del dibattito. Dovendo contestare il logocentrismo, scelgo un autore che lo difende molto bene. Così la mia vittoria sul logocentrismo sarà più persuasiva. Tuttavia, il merito della vittoria non sarà del tutto mio, ma in gran parte del mio alleato concettuale: Wittgenstein, quello dei giochi linguistici. Considero infatti il logocentrismo un gioco linguistico, ormai desueto in epoca scientifica. Infatti, è il gioco inventato da Aristotele all'interno di una filosofia eziologica, interamente pensata al servizio del potere. (La causa è per la "causa" del padrone). Dal primo libro della sua Metafisica risulta che il logos è la forma di discorso concepita dal filosofo per imporre artificiosamente all'essere la finitezza e fuorcludere l'infinito.

*

Dico inizialmente in quale ambito discorsivo il logocentrismo prospera e, immediatamente dopo, ne do una definizione generale, facilmente riconoscibile in pratica.

Avvertenza: bisogna sempre sospettare che, prima o poi, troveremo riferimenti logocentrici quando sentiamo fare discorsi intorno alle “essenze”, da intendersi classicamente come risposte alla domanda che cosa? (l’antico tì estìn). In questo senso le essenze sono gli elementi costitutivi dell’antica e logocentrica enciclopedia dei saperi. Vale lo stesso discorso ancora oggi? Sì e no.
Nel discorso scientifico, che non è logocentrico – questo è sicuro – non si parla di essenze. Non parla di essenze Darwin nel suo On the Origin of Species (1859). Accenna al problema dell’essenza nell’ultimo capitolo, il 15°, per risolverlo negativamente. “It is no valid objection that science as yet throws no light on the far higher problem of the essence or origin of life. Who can explain what is the essence of the attraction of gravity? No one now objects to following out the results consequent on this unknown element of attraction.” Non troverete il termine “essenza” in nessun manuale di fisica teorica. Per l’uomo di scienza il significante “essenza” segnala il luogo della sua ignoranza: essenza dell’insieme, essenza della gravità, essenza della specie, ecc., sono tutte realtà ignote all’uomo di scienza. Tuttavia, poiché sostengo che l’uomo di scienza sa elaborare la propria ignoranza attraverso il gioco dell’invenzione e della confutazione di congetture, devo ammettere che la scienza tratti in pratica le essenze in modo effettivo, come luoghi della propria ignoranza, senza preoccuparsi di esplicitarle. In questo senso, la teoria degli insiemi è un capolavoro di elaborazione dell’ignoranza. Il matematico ignora quale sia l'“essenza” dell'insieme. Ma ciò non gli impedisce di concepire una lussureggiante teoria degli insiemi.

In quanto segue sostengo la tesi che il discorso delle essenze sia una condizione necessaria per il logocentrismo, forse addirittura la precondizione primaria. Niente essenze, niente logocentrismo. Le scienze, che non parlano di essenze, non sono necessariamente logocentriche.

Dove si parla esplicitamente di essenze, allora, oggi? Nel discorso filosofico, che è un discorso antico, rimasto sostanzialmente invariato nei secoli. (La piccola modifica cartesiana, che passa dal discorso ontologico all’epistemico, non è stata sostanzialmente mai recepita). Non lo sostengo io, che la filosofia è il discorso delle essenze, lo afferma un grande fenomenologo francese, Merleau-Ponty, alla terza riga della sua Fenomenologia della percezione (1945): “La fenomenologia è lo studio delle essenze”. Più avanti nella stessa opera (Parte Prima, cap. VI) l’autore esplicita la portata logocentrica della tesi iniziale: “La parola ha un senso” (corsivo dell’autore). Il senso della parola è di porgere l’essenza della cosa.
Potrei usare questo enunciato per definire il logocentrismo, cioè per darne l’essenza filosofica: il logocentrismo consiste nel porgere l’essenza delle cose nelle parole. Ma sarebbe una definizione troppo generica e… troppo filosofica. Inutile per fare scienza. Preferisco dare una definizione scientifica più ristretta e, come si dice, operativa, in quanto facilmente riconoscibile nei testi logocentrici. Sarà una definizione meno essenzialistica e più matematica, meno preoccupata dell’interiorità del concetto – l’in sé e per sé – e più attenta al modo esteriore (sintattico) in cui il concetto si presenta e si articola nei diversi contesti con altri concetti.

Innanzitutto, per logocentrismo intendo un gioco linguistico che si gioca per intero all'interno del linguaggio, così come è dato all'essere parlante. Il logocentrismo è il gioco del Grande Altro, direbbero Lacan e Zizek il suo profeta.

Per tesi logocentrica intendo, allora, un’affermazione del tipo:

x è strutturato come un linguaggio.

x è strutturato come un linguaggio è una tessera del gioco linguistico logocentrico. Alla variabile x potete sostituire quasi tutto quel che volete: il pensiero, la ragione, l’inconscio, l’arte, il bello, ecc, persino il “linguaggio” e avrete le tessere del gioco linguistico logocentrico. Ma in questo gioco non troverete mai la tessera scientifica. Alla x non potete, infatti, sostituirvi la "scienza". Con un certo coraggio intellettuale Benjamin sostituisce alla x l'enunciato universale: "ogni manifestazione della vita spirituale dell’uomo", affermando proprio nell'incipit del saggio citato:

"Ogni manifestazione della vita spirituale dell’uomo può essere intesa come una sorta di linguaggio."

La mia definizione di logocentrismo riformula in termini meno filosofici e più scientifici quella di Benjamin. Sono alcune tessere del gioco linguistico logocentrico le seguenti:

La ragione è strutturata come un linguaggio. Questa è la definizione del logocentrismo filosofico che è stato moneta corrente per millenni di civiltà da Parmenide a Hegel.

Il “linguaggio” è strutturato come un linguaggio, dove il secondo termine “linguaggio” va inteso come “metalinguaggio”.

Questa è la definizione moderna di logocentrismo secondo Benjamin. Beninteso, Benjamin non lo dice così. Essendo filosofo, lo dice in termini di essenze. Dice che l’essenza spirituale della cosa si comunica nella (non attraverso l’) essenza linguistica, sfruttando la naturale duplicità del logos che è contemporaneamente linguaggio e ragione, in particolare ragione del linguaggio, ossia metalinguaggio. Benjamin si preoccupa di precisare che: “Questa tesi non è tautologica poiché significa: quanto di un’essenza spirituale è comunicabile è il suo linguaggio. Tutto poggia su questo secondo è, nel senso di “è immediatamente”. L'unica critica che, dal punto di vista di Wittgenstein, mi sentirei di fare a Benjamin è che confonde la tessere del gioco con il gioco. Sarebbe come confondere il gioco della briscola con le carte per giocare a briscola.

E poi si può continuare. La medicina è organizzata come un linguaggio. Il linguaggio della medicina è quello della ragion sufficiente o il linguaggio eziologico della causa e dell'effetto. (Vedi a questo proposito la pagina Perché la medicina non è scientifica?)

La religione monoteista è organizzata come un linguaggio. Il linguaggio della religione è quello della profezia, predicata come dogma attraverso il catechismo. L'ultimo bellissimo romanzo di Freud, Mosé e il monoteismo, va letto in chiave logocentrica, dove il Logos fonda la funzione paterna. (L'esergo goethiano di questa pagina, che è l'inno mefistofelico al logocentrismo è citato da Freud nel I capitolo della sua analisi laica.)

Il diritto naturale è organizzato come un linguaggio. La ragione "naturale", presupposta da Cicerone a Grozio come fondamento del diritto "naturale", non è altro che il Logos, "naturalmente" la parola del padrone. La volontà di ignoranza non vuole vedere quanto artificiale sia il naturale, confezionato dal Logos.

L’inconscio è strutturato come un linguaggio - è la nota tesi lacaniana - su cui non mi soffermo oltre, ma rimando al suo manifesto, il Discorso di Roma del 1953. Mi limito a una sola osservazione. Incurante della precisione scientifica, Lacan non bada a precisare di quale linguaggio si tratti nel caso dell'inconscio. In teoria, Lacan intendeva il "linguaggio" degli esseri parlanti. ("Il n'y a d'inconscient que chez l'être parlant", Télévision, Seuil, Paris 1974, p. 15). Tuttavia, avendolo sentito parlare in conferenze e seminari, sono portato a pensare che, di fatto, Lacan intendesse lo specifico linguaggio che usava lui, cioè il linguaggio della fenomenologia. Miller ribadisce la chiusura logocentrica: "La condition de l'inconscient c'est le langage". In pratica, il linguaggio di Lacan è autoreferenziale: è il linguaggio della propria dottrina del linguaggio. Dal logocentrismo non si esce, come non si esce dal delirio.

*
Forti di una definizione quasi essenzialistica, possiamo ora affrontare alcuni aspetti del logocentrismo, in particolare del logocentrismo psicanalitico.

“Ma che male c’è a definire l’inconscio in termini logocentrici?”,

mi chiedono in coro gli amici di formazione filosofico-letteraria.
La domanda è ingenua, perciò temibile. Potrei tentare di aggirarla, ricorrendo al confronto diretto Freud/Lacan. L'inconscio di Freud è muto, perché "l'Es non può dire ciò che vuole" (Es kann nicht sagen, was es will. "L'Io e l'Es", ultimo paragrafo). L'inconscio di Lacan è ciarliero (ça parle), quindi è poco freudiano. Tuttavia, posso arrischiarmi a dare a quella domanda due risposte dirette, destinate a due pubblici diversi: una risposta più semplice, essendo negativa, destinata al pubblico degli scientifici, e una risposta più complessa, essendo positiva, destinata al (più vasto) pubblico dei logocentrici.

Agli scientifici dico che il "male" della definizione logocentrica di inconscio è che impedisce di trattare l’inconscio in termini scientifici, per esempio come luogo dell’ignoranza originaria, cioè del non sapere di sapere. Lo impedisce perché convoca le essenze, che sono quanto di più estraneo si dia al discorso scientifico. (Le essenze pretendono una verità categorica. Ma la verità categorica è estranea al discorso scientifico, il quale opera con verità congetturali, condizionate e non dogmatiche). Poco male, in realtà. Non si può fare scienza all’interno del logocentrismo? Benone! Non siamo in molti ad avvertire l’urgenza di sviluppare il discorso psicanalitico in termini scientifici, per esempio come scienza dell’ignoranza, coerentemente con l’assunto – lacaniano! – che il soggetto dell’inconscio sia il soggetto stesso della scienza. Addirittura, oso pensare che il successo del lacanismo negli anni Settanta sia stato dovuto al cosiddetto “ritorno a Freud”, che in pratica consistette nel cancellare ogni traccia di scientificità che Freud aveva inavvertitamente impresso al proprio discorso psicanalitico (la Besetzung, la termodinamica, il fattore quantitativo ecc.).
Diciamolo in termini statistici o di popolazioni. A chi serve una psicanalisi scientifica? Praticamente a nessuno. Non certo al popolo degli psicoterapeuti, ai quali serve solo una tecnica terapeutica, poco importa che sia o no scientifica, da validare in qualche esame di Stato. Non serve nemmeno al popolo degli psicanalisti ortodossi, che si accontentano della loro dottrina di scuola. Quindi, tanto vale riconoscere il dato di realtà della prevalenza in psicanalisi del logocentrismo e rivolgersi ai logocentrici, cioè a quasi tutti.

Ai logocentrici, allora, dico quel che penso.

Il logocentrismo è una forma di infantilismo intellettuale.

Lo spiego in termini lacaniani che, essendo logocentrici, dovrebbero consentire di spiegare in modo comprensibile anche ai logocentrici perché il logocentrismo è una forma di infantilismo.
Il bambino crede che l’adulto sappia tutto, in particolare che sappia leggere i propri pensieri. Questa situazione infantile si riproduce regolarmente in analisi, dove con il transfert si installa nell’analista la figura del soggetto supposto sapere. Deinstallare tale soggetto dalla sua poltrona è il lungo e faticoso lavoro dell’analisi. (Il linguaggio informatico è qui pertinente). La psicanalisi dovrebbe deinfantilizzare chi la richiede (in questo consiste la cura analitica). Tuttavia, non si vede come possa deinfantilizzare chicchessia, se essa stessa è infantilizzante.

L’infantilismo è credere che l’altro sappia, dunque.

La forma più grave di infantilismo è quando la supposizione riguarda l’altro immaginario – immaginario anche quando è il mio prossimo reale. Da questa forma di infantilismo derivano i fenomeni soggettivi che Freud analizza nella sua Massenpsychologie del 1921: i fenomeni che si estendono dall'innamoramento (una folla a due persone o anche meno) alla fascinazione delle folle da parte del dittatore.

La forma meno grave di infantilismo è proprio quella logocentrica. Essa suppone che a sapere sia l’altro simbolico, o il linguaggio stesso. È questa la forma lacaniana di logocentrismo, consolidato come fallogocentrismo, dove esiste un significante particolare che ratifica ogni significazione: il significante fallico senza significato. In generale, nel logocentrismo si suppone che nel significante esista un sapere - sapere da estrarre mediante le tecniche ermeneutiche dell'interpretazione, in vigore da Platone in poi. Nella variante lacaniana del logocentrismo si suppone che il sapere stesso sia un significante (il significante binario, S2, cfr. i cosiddetti matemi dei quattro discorsi, per esempio, nel Seminario XVII). Perciò il logocentrismo lacaniano presenta il logocentrismo in forma pura, quasi a prescindere da ogni connotazione ermeneutica.

Qui mi preme segnalare due conseguenze negative dell’infantilismo logocentrico.
La prima conseguenza tocca il reale. Dovendo affrontare la questione del reale, il logocentrismo può trattare il reale solo in termini di ciò che sfugge al logos ("Le réel en tant qu’il est le domaine de ce qui subsiste hors de la symbolisation", J. Lacan, Réponse au commentaire de Jean Hyppolite (1954), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 388.). Ma al tempo stesso il reale "soffre" il logos e “patisce il significante”. (Tipica è la definizione logocentrica e impredicativa di reale come "ce qui, du réel primordial, pâtit du signifiant." J. Lacan, Le Séminaire. Livre VII. L’Ethique de la psychanalyse (1959-1960), Seuil, Paris 1986, p. 142.). Da lì seguono le note e ripetute formule lacaniane del reale come categoria logica dell'impossibile ("Le réel comme impossible", Radiophonie (1970), in J. Lacan, Autre écrits, Seuil, Paris 2001, p. 422.) o come ciò che non cessa di non scriversi all’interno del logos (per esempio, il reale del rapporto sessuale. Cfr. J. Lacan, Encore (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 87.). Considero queste formule essenzialmente vuote, perché non dicono nulla di ciò che definiscono. Il reale non cessa di non scriversi al loro interno, appunto.

La seconda conseguenza ripropone la questione della scientificità. La supposizione che l’Altro sappia non è una congettura scientifica. È un dogma del catechismo logocentrico. In quanto tale non genera congetture da falsificare o da confermare. Produce solo varianti dottrinarie e lunghe interminabili analisi, che non arrivano a concludere su qualche accettabile confutazione o conferma.
Se non genera scienza, poco male o male per pochi – come ho già detto. Il vero male è che il logocentrismo costituisce l'ultima e formidabile difesa interna all’analisi contro l’analisi stessa. Il logocentrismo impedisce di analizzare. Perché? Lo dico nei miei termini un po’ spicci: il logocentrismo non affronta la questione dell’oggetto e quindi del desiderio. L’oggetto è nascosto dietro il velo dell’Altro onnisciente, dove riesce inaccessibile all'analisi. Insomma, nella misura in cui dà più peso all’altro che all’oggetto, il logocentrismo si presta più a fare filosofia che scienza o psicanalisi. Con il logocentrismo si fa molta fenomenologia e poca psicanalisi.
Perciò il logocentrismo costituisce l’idolo polemico di questo sito dove si propone la psicanalisi come scienza, precisamente come scienza del non voler sapere, che riconosce nel logocentrismo una delle principali radici della volontà di ignoranza.

*
Volendo, più per divertimento che per altro, potrei imbastire una polemica a sfondo biologico intorno al termine “logocentrismo”.
A cosa serve in ultima analisi il logocentrismo? A stabilire la discontinuità biologica tra l’uomo e l’animale. Uno con la parola, l’altro senza; uno con la mente, l’altro senza; uno con la scintilla divina, l’altro senza. (La religione è sempre in agguato dietro l’ontologia).
Provate a leggere “L’animale che dunque sono” (2006, postumo) del compianto Jacques Derrida. Io non ci sono riuscito. Sono arrivato a p. 58, prefazioni comprese, e mi sono bloccato. È vero, ho le mie resistenze al sapere anch'io. Ma mi chiedo: come si può parlare dell’animale senza citare Darwin? Di quale animale parlano Lacan e Derrida in polemica tra loro? Di un animale che evidentemente o non esiste o non è previsto dal loro logocentrismo. Lacan per altro sembra conoscere Darwin, almeno quello da fumetto, disegnato dall’allievo Thomas Henry Huxley (e in parte recepito anche da Freud), se è vero che parla di la barbarie du siècle darwinien (Ecrits, p. 121).
È forse meglio la barbarie logocentrica?

Ma già che siamo in terreno biologico, una domanda sorge spontanea.

Quando  cominciò a parlare Homo sapiens?

Non lo sapremo mai con precisione, perché il linguaggio non lascia fossili antecedenti alla scrittura. Ma se è vero quel che dice Benjamin, cioè che il nome è l’essenza spirituale delle cose, per parlare ci vogliono le cose cui attribuire un’essenza spirituale. Ma forse anche questo non è bastato. Gli animali, pur vivendo tra le cose, non hanno sviluppato un linguaggio che nomini le cose. Forse perché non costruiscono cose nuove? Il linguaggio umano, altamente simbolico, deve essere stato preceduto da una fase “tecnica” in cui l’uomo ha costruito cose “innaturali”, per esempio le prime asce di pietra. Ma forse neanche questo è bastato. Anche i Neandertal costruivano strumenti litici in stile musteriano, ma non si sa che fossero particolarmente chiacchieroni. Occorreva forse che la tecnica avanzasse di più? Che le capacità cognitivo-pratiche si espandessero nella massa cerebrale umana? Magari la riorganizzassero attraverso nuove connessioni neurali?

Viene il sospetto che il linguaggio non sia poi tanto originario come pretende il logocentrismo, di un Lacan per esempio. “L’homme parle donc, mais c’est parce que le symbole l’a fait homme”. (J. Lacan, “Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse” (1953), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 276). Forse le cose non sono andate come presume il logocentrismo. Forse, scientificamente parlando, l’uomo parla perché 1,8 milioni di anni fa nella gola di Olduvai in Tanzania il suo saper costruire utensili l’ha presentato a noi come Homo habilis (o come il di poco successivo Homo ergaster).

L'Homo logocentricus immagina che il linguaggio sia calato dall'alto nell'essere parlante come lo spirito di dio attraverso il fiato del suo creatore. Non sono andate così le cose. Il linguaggio, come sostiene Vygotskij, si è evoluto parallelamente al lavoro. Il bastone per cogliere un frutto dall'albero fu una conquista dell'intelligenza tanto dello scimpanzè quanto l'uomo. Ma solo nell'uomo il bastone divenne una strumento culturale, integrato in un vasto insieme di "mezzi di produzione", accompagnato da istruzioni per l'uso prima a voce poi per iscritto. Perché anche il lavoro, come il linguaggio, fu da subito un evento sociale. "Il linguaggio si è sviluppato con i processi di lavoro" (Cfr. L.S. Vygotskij, A.R Luria. La scimmia, l'uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento (1930), a c. di M.S. Veggetti, Giunti, Firenze 1987, pp. 52-59).

Ma occorre una precisazione per comprendere senza fraintendimenti la precedenza del fare rispetto al parlare. L'acquisizione della parola, che tutto fa ritenere un evento improvviso e non graduale, non costituisce di per sé un vantaggio selettivo, favorente gli individui più adatti alla riproduzione. E' quindi giocoforza pensare l'avvento del linguaggio come exadattamento di facoltà lentamente acquisite e progressivamente selezionate in funzione di altri scopi, un po' come le piume che, nate come meccanismi di termoregolazione già in alcuni dinosauri, si sono exadattate al volo degli uccelli.

Le abilità tecniche del genere Homo si prestano a un'interpretazione simile. Il cervello di Homo habilis era 5 volte più piccolo di quello di Homo sapiens. Tuttavia, a differenza dei cugini scimpanzé, Homo habilis sapeva costruire oggetti utili, cioè finalizzati a uno scopo. Questa capacità è stata selezionata positivamente. Parallelamente all'aumento della massa cerebrale, sono state selezionate abilità tecniche sempre maggiori, che favorivano una maggiore sopravvivenza. Finché un giorno, ecco il miracolo. Quasi per gioco, alcuni cuccioli di Homo sapiens, dotati della necessaria complessità cerebrale, già selezionata per altri scopi, hanno inventato una lingua. Magari i figli si divertivano per gioco a dare nomi strani agli oggetti costruiti dai padri. I grandi, allora, avrebbero imparato a parlare dai piccoli, alla rovescia di quanto avviene oggi. La congettura, molto poetica, non è mia ma di Ian Tattersall, curatore del Dipartimento dell'American Museum of Natural History di New York. La riferisco perché la sua validità scientifica sembra dipendere unicamente dalla sua poeticità. (Ha una verità più di principio che di fatto). Da questa congettura ai giochi linguistici di Wittgenstein il passo è breve. E quasi sembra confermata per questa via un po' perifrastica la natura tecnica del linguaggio. Poi il processo si è autoalimentato attraverso una retroazione positiva. Grazie alla parola Homo sapiens ha creato nuovi oggetti,

le idee,

che hanno prodotto nuove parole.

Su basi interamente biologiche era nata la cultura.

Chissà che i racconti biblici della creazione del mondo non contengano la traccia sacralizzata e invertita di questa memoria biologica. La creazione mediante la parola di dio testimonierebbe il processo inverso: prima la mano dell'uomo creò le cose, poi le cose, quando raggiunsero una massa critica, crearono la parola dell'uomo. Allora l'uomo divenne dio.

La religione sarebbe impensabile senza logocentrismo. O meglio, considerato il fatto che la religione è un potente sistema di controllo sociale, il discorso del padrone sarebbe impensabile senza logocentrismo.

*

“Ma che male c’è a essere logocentrici?”

Riprendo la questione che gli amici mi pongono con il proposito di andare più a fondo al male logocentrico. Che sintetizzo in una formula: il logocentrismo porta alla dissoluzione dell'universo simbolico. Mi impegno a esplicitare i rapporti tra simbolico e logocentrismo, all'interno della cornice benjaminiana, riferendomi al saggio Il valore del linguaggio nel dramma e nella tragedia (Walter Benjamin, Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel und Tragödie), che esordisce con questa definizione logocentrica del tragico:

"Il tragico poggia sulla legalità (legittimità) del discorso parlato tra uomini".

Innanzitutto ribadisco la pertinenza della mia prima lezione al Seminario di Asciano (La fallacia logocentrica) sulla dissoluzione del simbolico come conseguenza del logocentrismo. In quella lezione dimostro che, se si adottano i tre classici assiomi logici del logocentrismo forte: principio di identità, principio di non contraddizione e principio del terzo escluso, il simbolico diventa uno spazio topologico sconnesso (addirittura, totalmente sconnesso). La conclusione è controintuitiva, perché a scuola (al liceo classico) ci hanno insegnato che il logos è ciò che tiene unito il mondo, connettendo razionalmente tutto con tutto all'interno di una legalità superiore.

In questa sede provo a fare un discorso meno formalizzato e più filosofico, tenendo presente quella nozione di linguaggio come luogo della Verità e della Legge, che Benjamin esplicita molto bene e che Lacan pone a fondamento della sua dottrina psicanalitica centrata sul Grande Altro.

L'universo simbolico che ereditiamo dalla tradizione culturale, cui apparteniamo, è pesantemente condizionato dal logos. Tale universo, che sembra specifico dell'uomo (le sciemmie antropomorfe ne hanno solo degli abbozzi cognitivi incompleti), è principalmente tessuto di linguaggio. A sua volta il linguaggio è formato dalle lingue effettivamente parlate dall'uomo, non solo a parole. Ogni lingua umana comunica in se stessa, non solo attraverso se stessa, come precisa Benjamin (Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, Sul linguaggio in generale e sul linguaggio dell'uomo), le diverse espressioni spirituali dell'uomo. Il simbolico, pertanto, è formato da una serie di linguaggi: il linguaggio verbale, il linguaggio del corpo, il linguaggio della natura, il linguaggio delle arti, il linguaggio delle religioni. La collezione di questi linguaggi forma lo spirito dell'uomo. Questa è la concezione logocentrica dello spirito, ma il guaio è proprio che forse non ne esiste un'altra. Se non ci fosse il logos, capace di dire lo spirito, lo spirito non esisterebbe. Come si può vanificare, allora, tutta questa ricchezza spirituale creata dal logos?

La ricchezza spirituale creata dal logos si vanifica nel logos stesso.

Mi spiego.

Lo dico in termini classici, ossia ancora logocentrici, anche se per alcuni risulteranno criptici: l'ubris colpisce ancora.

Lo dico in termini messianici: il logocentrismo è l'alfa e l'omega di se stesso.

Ma forse è meglio dirlo in termini più familiari. C'è una presunzione latente nel logocentrismo che, diventando patente, porta alla tragica dissoluzione dei prodotti simbolici del logocentrismo stesso. La presunzione logocentrica si chiama senso. Il logocentrismo pretende dare senso a tutto.

La nozione di senso sembra appannaggio dell'ontologia: c'è inevitabilmente un senso dell'essere che il filosofo cerca di decifrare attraverso la propria ermeneutica, la logica del senso (Deleuze). Ma la nozione di senso può essere affrontata anche in terminiepistemici. Il senso è ciò che si intende. Il senso di tutto è, quindi, intendere tutto.

La pretesa, addirittura il peccato originale, del logocentrismo è di intendere tutto. Lo dico in termini teologici: la pretesa del logocentrismo è l'onniscienza. La narrazione mitologica del Genesi parla di un albero della conoscenza del Bene e del Male, che stava al centro del giardino dell'Eden e che saggiamente Jahvé aveva interdetto al primo uomo. Oggi sappiamo che quell'albero si chiamava logocentrismo e che l'interdizione era la rappresentazione antropomorfa di un'impossibilità logica: qualunque sapere non può essere completo, se vuole essere coerente. Insomma, non esiste l'onniscienza, neanche nel buon dio.

Ecco allora la caduta conseguente al peccato originale: il sapere che si pretende completo, si dissolve nella propria stessa contraddizione. Questo è un modo di dire la cosa più drammatico di quello freddamente logico. E' una parafrasi pittoresca del teorema di incompletezza di Gödel. La tragedia è presupporre che esista una legalità della lingua che governi tutto. Se esistesse nella lingua quella legalità assoluta e totalitaria che Benjamin suppone, allora è possibile tutto e il contrario di tutto. La causa (o il senso) di tutto svanisce nel momento in cui si tenta di instaurarla. I romanzi di Kafka lo dicono meglio di quanto non sappia fare io.

Quello che posso proporre, dal punto di vista del soggetto cartesiano della scienza, è un superamento della concezione benjaminiana del tragico come effetto della legalità intrinseca al linguaggio. Lo dico nei miei termini: la tragedia classica è ontologica, quella moderna epistemica. La tragedia classica è la tragedia del destino che la legalità intrinseca al linguaggio impone ineluttabilmente all'eroe. E' la tragedia della necessità ontica. L'eroe deve finire così, perché era sin dall'inizio prestabilito. L'eziologia non perdona: dalla causa stabilita discende l'effetto prescritto e solo quello. La tragedia moderna, invece, è indeterminista. E' la tragedia dell'incertezza epistemica, da cui il soggetto moderno non esce neppure imponendo estrinsecamente al sapere una certezza dogmatica, per esempio quella della rivelazione.

Allora vediamo Amleto che non sa cavarsela con quel che sa del padre (i suoi peccati), Otello che si autoinganna con quel che crede di sapere dell'amore (o degli amori), Lady Macbeth che inciampa sul sapere i limiti del potere, re Lear che affonda nell'ignoranza di cosa significhi essere padre. Tutte tragedie, quelle shakesperiane, latenti al discorso scientifico, di cui rappresentano la patologia. Il volgo lo sa bene (meno bene lo sanno gli accademici) e resiste alla scienza, a volte perfino troppo, buttando via il bambino (la scienza) insieme all'acqua sporca (la tragedia).

Forse sono riuscito a far intendere ai miei amici il male del logocentrismo. Lo dico in linguaggio psicanalitico. Il logocentrismo è un male come è un male la regressione reale nella cura psicanalitica. Il male del logocentrismo è la regressione alla situazione ontologica prescientifica. Se esiste una scienza psicanalitica, non può essere logocentrica. Per costruire una scienza psicanalitica - per esempio, come scienza dell'ignoranza, come si tenta di fare in questo sito - bisogna necessariamente passare attraverso una fase destruens: la distruzione (o decostruzione) del logocentrismo.

Oggi non si vedono all'orizzonte progetti di innovazione del discorso psicanalitico. La decadenza è consolidata. Ormai la psicanalisi è interamente riassorbita, senza che lo si dica, nel discorso medico come variante psicoterapeutica. Tuttavia, quando si annunciasse una proposta di uscita dalla crisi, il primo test da fare è quello sul logocentrismo. Se fosse una proposta logocentrica, sappiamo cosa fare: respingerla fermamente. Come respingiamo le proposte logocentriche del passato, tipicamente quella lacaniana. L'innovazione logocentrica della psicanalisi operata da Lacan è stata una falsa innovazione. Molti e di non piccolo calibro intellettuale ci hanno creduto in nome della volontà di autoinganno, cioè come volontà di permanere in un luogo dove si è prigionieri di un falso non falsificabile e neppure riducibile a poco meno falso. Questi autoinganni non giovano politicamente ad altri che ai falsi maestri. In questo senso, senza polemica personale, possiamo tranquillamente riconoscere in Lacan un

grande falso maestro,

del calibro di Hegel o Marx. Come quei grandi ebbe il successo che si meritava

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Un logocentrimo particolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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