LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE SE FAI LE DOMANDE GIUSTE"
creata il 13 novembre 2008 aggiornata il 17 novembre 2008

 

 

Vieni da Turing. Vuoi approfondire il test che porta il suo nome, ma che Turing si guarda bene di definire come test.

Un test intuizionista

Turing propose un "test", apparentemente psicologico, in realtà sottilmente logico, quindi più di principio che empirico, per determinare il "quoziente di intelligenza" delle macchine.
Il cosiddetto test di Turing è formulato – guarda caso – in modo ingannevole. È singolare che la sua formulazione sia ingannevole, perché propone di misurare l’intelligenza come capacità di discriminare tra inganno e non inganno. Come valutarlo? Rileggiamolo. Si trova nell'incipit del saggio

Macchine calcolatrici e intelligenza.

Il gioco dell’imitazione

Mi propongo di considerare la domanda: «Possono pensare
le macchine?» Si dovrebbe cominciare col definire il significato
dei termini «macchina» e «pensare». Le definizioni potrebbero
essere formulate in modo da riflettere il più possibile l’uso normale delle parole, ma questo atteggiamento è pericoloso. Se il significato delle parole «macchina» e «pensare» deve essere trovato esaminando le parole stesse attraverso il loro uso comune è difficile sfuggire alla conclusione che tale significato e la risposta alla domanda «possono pensare le macchine?» vadano ricercati in un’indagine statistica del tipo delle inchieste Gallup. Ciò è assurdo. Invece di tentare una definizione di questo tipo sostituirò la domanda con un’altra, che le è strettamente analoga e che è espressa in termini non troppo ambigui.
La nuova forma del problema può essere descritta nei termini di un gioco, che chiameremo «il gioco dell’imitazione».
Questo viene giocato da tre persone, un uomo (A), una donna
(B) e l’interrogante (C), che può essere dell’uno o dell’altro sesso. L’interrogante viene chiuso in una stanza, separato dagli altri due. Scopo del gioco per l’interrogante è quello di determinare quale delle altre due persone sia l’uomo e quale la donna. Egli le conosce con le etichette X e Y, e alla fine del gioco darà la soluzione «X è A e Y è B» o la soluzione «X è B e Y è A». L’interrogante può far domande di questo tipo ad A e B: «Vuol dirmi X, per favore, la lunghezza dei propri capelli?»
Ora supponiamo che X sia in effetti A, quindi A deve rispondere. Scopo di A nel gioco è quello di ingannare C e far sì che fornisca un’identificazione errata. La sua risposta potrebbe perciò essere: «I miei capelli sono tagliati à la garçonne, e i più lunghi sono di circa venticinque centimetri». Le risposte, in modo che il tono di voce non possa aiutare l’interrogante, dovrebbero essere scritte, o meglio ancora, battute a macchina. La soluzione migliore sarebbe quella di avere una telescrivente che mettesse in comunicazione le due stanze. Oppure le domande e le risposte potrebbero essere ripetute da un intermediario. Scopo del gioco, per il terzo giocatore (B), è quello di aiutare l’interrogante. La
migliore strategia per lei è probabilmente quella di dare risposte veritiere. Essa può anche aggiungere alle sue risposte frasi come: «Sono io la donna, non dargli ascolto!» ma ciò non approderà a nulla dato che anche l’uomo può fare affermazioni analoghe.
Poniamo ora la domanda: «Che cosa accadrà se una macchina
prenderà il posto di A nel gioco?» L’interrogante darà una risposta errata altrettanto spesso di quando il gioco viene giocato tra
un uomo e una donna? Queste domande sostituiscono quella
originale: «Possono pensare le macchine?»

(da Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950, in A.M. Turing, Intelligenza meccanica, a cura di G. Lolli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 121-122).

Vale la pena fare alcune precisazioni sul gioco di Turing e le premesse implicite su cui si basa.
Apparentemente Turing si propone di rispondere alla questione se le macchine in generale possano pensare. In realtà forgia il proprio test in modo da rispondere alla domanda se una particolare macchina - quella sottoposta al test - possa pensare come un uomo generico. Questa precisazione ci consente di capire meglio la natura del test, che non è metafisico (generale) ma epistemico (particolare).

Turing non si chiede come il filosofo “cosa significa pensare?”. Non ha in mente una risposta predefinita del tipo: “Pensare significa pensare l’essere”. Turing non è un metafisico. E' un matematico che pratica la matematica miscelando con accortezza e sagacia astrazione e concretezza: l'astrazione dell'inventore del calcolatore universale, la concretezza del decrittatore dei messaggi cifrati del nemico tedesco. Di conseguenza non arriva a sentenziare con sicumera filosofica: “Questo soggetto pensa”, "Questo non pensa”. Turing si pone la questione se una macchina, quella umana compresa, possa discriminare tra vero e falso altrettanto bene (o altrettanto male) di un uomo. Se la macchina supera il test, si potrà dire che quella particolare macchina pensa come l’uomo, nel senso che si destreggia con la propria ignoranza come l’uomo.

Ma ecco la peculiarità del test, che non è oggettivo, ma dipende dal sapere di chi esegue il test. Costui sottopone la coppia da testare alle domande che il proprio sapere suggerisce nel contesto della situazione d'esame, così come va progressivamente e anche imprevedibilmente configurandosi. La prospettiva intuizionista permette di capire ancora meglio di cosa si tratta. Allo stesso esaminatore conviene porsi in un'ottica intuizionista, dove pensare si configura come un’attività ancora più debole del discriminare tra vero e falso. Perché ci sia pensiero, e l'esaminatore lo rilevi, basta che costui sappia distinguere tra più falso e meno falso. C'è un aspetto umoristico del test che non deve sfuggire allo psicanalista che sia interessato al progetto "scienze dell'ignoranza". Il test è meno un test sull'intelligenza della macchina e più un test autoreferenziale sull'intelligenza dell'esaminatore che applica il test.

Ma di quale intelligenza si tratta? Certamente non di quella comunemente misurata dal QI, nelle sue varie formulazioni (quella di Binet risale al 1905, quella di Wechsler al 1939). Per Turing l'intelligenza non è l'applicazione corretta di una sintassi prestabilita. Per Turing, come per Freud, l'intelligenza è la capacità di scovare o escogitare nuovo sapere. L'interpretazione intelligente secondo Freud non è quella confermata dalla biografia dell'analizzante, ma quella che provoca l'affiorare di nuovo materiale inconscio. Così l'intelligenza convocata da Turing è la capacità - tanto della macchina quanto dell'uomo - di concepire nuove configurazioni epistemiche adatte a nuove situazioni relazionali. L'intelligenza, insomma, è emergenza del nuovo. Ma attenzione! Può richiedere un caro prezzo, l'intelligenza. Follia, ingenuità, stupidità, sono i contrappesi più comuni della vera intelligenza. Questo lo sanno tutti e tutti giustamente e sanamente resistono alla vera intelligenza.

Condizione necessaria, ancorché non sufficiente, perché la vera intelligenza emerga, è l'apertura della mente. Il tema è stato trattato con competenza e gradevolezza dal fisico teorico di Palermo, Ignazio Licata, nel suo ultimo libro La logica aperta della mente (Codice, Torino 2008). Ovviamente, per essere aperta, la definizione di "apertura" non può essere data in forma chiusa. In realtà l'apertura non si può definire, se deve essere tale da offrire la possibilità che emerga sempre del nuovo. Tuttavia, in questo sito ho ripetutamente indicato quale potrebbe essere una logica adatta, se non a garantire almeno a favorire l'apertura epistemica: la logica intuizionista. Tale logica, che non adotta il principio del terzo escluso, non prefigura totalità precostituite e chiuse, dove qualsiasi elemento del discorso è presente o come elemento di un insieme o come elemento del suo complementare. In termini inappropriati si potrebbe parlare alla Lacan di logica del non tutto. In realtà si tratta di una logica che rompe con l'inattendibilità dei principi logici categorici del signor Aristotele (Brouwer 1908), oggi codificati nell'algebra booleana dei circuiti computazionali.

In termini leggermente più tecnici, la logica classica tratta insiemi ricorsivi, per i quali, cioè, esiste un algoritmo in grado di decidere se un elemento appartiene all'insieme o al suo complemento. La logica intuizionista tratta insiemi ricorsivamente numerabili, per i quali, cioè, esiste un algoritmo capace di elencare gli elementi dell'insieme. Tali insiemi si situano al livello più basso di indecidibilità, nel senso che in generale non è possibile decidere se un elemento non appartiene all'insieme. L'insieme delle macchine pensanti è un esempio spiritoso di insieme (potenzialmente) ricorsivamente numerabile. Ammesso che si possano generare tutte le macchine pensanti, non è in generale possibile decidere in modo categorico se una particolare macchina è pensante oppure no. (Per approfondimenti vai a Recursive Functions di Martin Davis).

Il test di Turing mi offre l'occasione buona per mettere in evidenza un tratto cartesiano della logica intuizionista, cioè, il suo collocarsi nel panorama epistemico come una possibile logica del "provvisorio" (par provision, diceva Cartesio nel suo Discorso sul metodo). Tale carattere la rende particolarmente adatta al trattamento delle congetture.

Il carattere intuizionista del test di Turing emerge dalla sua struttura logica, che è del tipo "fino a prova contraria". Il superamento del test si formula attraverso una doppia negazione. L'esaminatore non conclude positivamente e definitivamente che la macchina in esame pensa, ma si limita ad affermare che, date le risposte escogitate dalla macchina, non può concludere che la macchina non pensi. La conclusione che la macchina pensi è sempre provvisoria. In un certo senso il test è interminabile: si può prolungare all’infinito, finché l'esaminatore non trova quella particolare domanda che differenzia il pensiero (vero?) dell’uomo da quello della macchina (falso?). Finché non la trova, non può escludere la possibilità del pensiero meccanico. Non vale per la macchina il motto parmenideo: pensare e essere è una cosa sola. La macchina esiste finché funziona. Quando funziona, qualche volta non si può dire che non pensi. In linguaggio giuridico, l’onere della prova positiva di avere un pensiero è lasciato alle macchine. Le quali si guardano bene dall’imboccare questa strada scivolosa. Nessuna macchina argomenterebbe spontaneamente e con innegabile presunzione: “Penso, dunque sono”. Saggezza.

Insomma, sembra dire Turing con il suo tipico larvato umorismo, lasciamo pure l’intelligenza ontologica agli uomini, tanto è un’intelligenza che non serve a molto - per esempio non serve a decrittare un messaggio cifrato o a interpretare un sogno deformato dalla logica dell'inconscio. (Tutt'al più l'intelligenza ontologica si limita a conservare il sapere che c'è ed è codificato nell'enciclopedia, senza produrre nuove conoscenze). Alle macchine, che sono serie, Turing riserva un’intelligenza epistemica, che è perennemente costruttiva. Le macchine, in particolare quelle biologiche, non conoscono il cosiddetto problema della fermata alla soluzione definitiva: continuano a elaborare per tentativi ed errori l'informazione che traggono dal e immettono nell'ambiente, finchè non si esauriscono. In particolare, se sanno costruire sempre più credibili imitazioni dell'essere umano, si può credere che pensino. Allora, una macchina pensante non è molto diversa da un bravo attore sulla scena. La macchina pensa se e finché riesce a far credere a noi umani che pensi. Vedere il delizioso film d'animazione Wall-e per credere.

E qui concludo veramente con un riferimento che dovrebbe essere familiare allo psicanalista. L'isteria è una macchina simulatrice. Simula di avere una malattia organica, in particolare neurologica, con paresi e anestesie in salsa d'angoscia. Il medico, che non è aduso alla logica intuizionista (perché dopo decine di anni di studio e aggiornamenti sistematici è cablato come un circuito booleano) senza por tempo in mezzo - il medico non conosce il tempo di sapere - conclude categoricamente: "L'isteria simula". Più prudentemente dovrebbe dire: "Non si può finora concludere che l'isteria non sia malata", tanto per lasciar tempo all'inganno morboso di far emerger la novità dell'isteria, che è la novità della verità soggettiva. Si tratta d'avere la pazienza del pescatore per acchiappare la carpa della verità con l'esca della menzogna. (Citazione del detto di Polonio - Amleto, atto secondo, scena prima - in S. Freud, "Costruzioni in analisi" (1937), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, vol. XVI, p. 48).

Dopo la conclusione la ripresa. Chi mi scrive una pagina su Turing, precursore delle reti neurali (1948), in connessione con il suo test?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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