LA PSICANALISI SECONDO |
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"Das Beste, was du wissen kannst, |
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Vieni da “Freud” Sei in “Freud e Goethe” In Goethe troviamo molti elementi del vocabolario di Freud In questa pagina tento un’operazione alla quale non sono assuefatto e per la quale probabilmente non dispongo degli strumenti tecnici “giusti” per realizzarla. Intendo l’analisi storica dell’eziologismo freudiano. Non sono uno storico ma uomo di scienza. Tuttavia, da uomo di scienza, non posso non chiedermi da dove provenga la coazione freudiana a cercare la causa di ogni fenomeno psichico: dal sogno ai lapsus della vita quotidiana. “Se l’inconscio produce effetti ragionevolmente giustificati, allora è ragionevole ammettere che esista come loro causa”. (1) Messa così, per via dell’apparente ragionevolezza, anche lo sprovveduto di sottigliezze logiche subodora la fallacia. Ma se esiste una fallacia, la sua esistenza va storicamente giustificata, cioè ne va trovata la causa. Con un piccolo ma inevitabile pericolo: di cadere nella stessa fallacia eziologica che si vuol giustificare storicamente. Ma tant’è, ho deciso di correre questo pericolo. * Detto questo, mi resta da dimostrare che Freud fu effettivamente goethiano. In un particolare, ammesso che esista la storiografia scientifica, la mia ricostruzione storica è scientifica. Infatti, è altamente congetturale e, quindi, facilmente confutabile. Un buon inizio per fare della storia scientifica. L’assioma da cui parto è: tra Goethe e Freud l’anello di congiunzione è Spinoza. I riferimenti espliciti a Spinoza nelle GW sono solo due e indiretti. Ma tutta l’opera di Freud risente dell’influsso spinozista – mediato da Goethe, come dimostreremo. Sentiamo cosa scrive Bodei: “Anche se le due forme di pensiero devono essere tenute rigorosamente separate, non si può restare colpiti, leggendo Freud, dai punti di contatto non secondari tra le sue posizioni e quelle di Spinoza. Le tesi che l’anima funzioni come un “automa spirituale”; che la mente è in sostanza idea corporis, ma soprattutto che gli affetti, considerati in senso quantitativo e legati al conatus, siano tanto più in nostro potere e la mente ne patisca tanto meno, quanto più li conosciamo […] Inoltre, come in Freud, il fanciullo è spinto a rinunciare all’onnipotenza del pensiero e del desiderio a causa del rafforzamento del principio di realtà, così in Spinoza la formazione di idee adeguate ci induce ad abbandonare spontaneamente quel che si sa essere mero frutto dell’immaginazione, qualcosa di razionalmente impossibile […]. Anche in Spinoza, infine, al pari di Freud, il passaggio da un bene inferiore a uno superiore non avviene per effetto del riconoscimento esclusivamente intellettuale della superiorità di un’idea sull’altra, ma per effetto dell’abbandono da parte del nostro appetito, di quel che in precedenza ci appariva un bene e che ora invece non desideriamo più, pur non cessando di essere potenzialmente un bene qualora la nostra vis existendi debba diminuire. E, siccome il desiderio non è che appetito accompagnato da coscienza, ne segue che la coscienza si modifica assieme all’appetito”. (R. Bodei, Geometria delle passioni: paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1994 pp. 327-328). Più esplicito e più facilmente documentabile è il riferimento di Goethe a Spinoza. Cito dallo Studio da Spinoza (Studie nach Spinoza) del 1784-1785, pubblicato postumo (Weimar Ausgabe, Abt. 2, vol. 11, pp. 315-319, trad. mia): “Il concetto dell’esserci [Dasein] e della perfezione è un unico e stesso concetto. Seguendolo per quanto ci è possibile, diciamo di pensare l’infinito. L’infinito però, o l’esistenza perfetta, non può essere pensato da noi”. Un nonnulla separa la mia lettura di Spinoza da quella di Goethe. Con entusiasmo romantico maggiore del mio, corroborato dall’innesto di un maturo illuminismo, Goethe sembra proporre come oggetto delle proprie passioni niente di meno che l’infinito. Ma attenzione! Di quale infinito si tratta? Di un infinito ontologico, recita l’incipit allo studio su Spinoza. Si tratta, cioè, di “un ente assolutamente infinito e sommamente perfetto”, come lo definisce lo stesso Spinoza nella seconda dimostrazione dell’undicesimo teorema della prima parte della sua etica. Resta da chiedersi se l’interpretazione ontologica di filosofi epistemici come Cartesio e Spinoza sia non dico adeguata – in parte lo è, essendo perfino Cartesio l’autore di una prova ontologica dell’esistenza di dio, basata sulla sua perfezione – ma feconda. Come si può all’interno dell’ontologia concepire un’etica diversa dal semplice adeguamento alla legge ontica “senza intervento del sapere”. Non mi sembra che sia questa l’etica intellettualistica, che Spinoza propone a partire dall’amor intellectualis dei. C’è amore intellettuale per dio, proprio perché non è possibile adeguarsi a dio. Ma se non c’è adeguamento, svanisce l’essere dell’ente e a maggior ragione una pratica etica adeguata. "Forse Ed ecco la prima conseguenza inibitoria della concezione ontologica dell’infinito. “L’infinito però, o l’esistenza perfetta, non può essere pensato da noi”. L’infinito, pur presentato – direi in modo ilozoistico – come somma perfezione, è inconcepibile e ineffabile. Questo teorema di teologia negativa non è moderno. Forse non è neppure spinoziano. Il deus sive natura di Spinoza diventa sotto la penna di Goethe una dea natura più simile all’“eterno femminino” che a una congettura scientifica. La personificazione della natura che il vitalismo propone e sovrappone al panteismo spinoziano è resa efficacemente dalla ben nota storiella. Non solo. L’infinito spinoziano, sotto forma di causa sui, non è certamente l'ineffabile infinito di Goethe. All’interno della concezione epistemica di Spinoza, dove il falso non esiste, perché il falso non è il contrario ontologico del vero, ma è il sapere meno ben saputo del “vero” sapere (che è quello di dio), l’infinito si può conoscere e se ne può parlare. Parzialmente, naturalmente, cioè, stando a Spinoza, “in modo falso”. Oggi, in logica matematica si parla di strutture non categoriche. Sono strutture di cui si possono presentare modelli diversi tra loro non equivalenti (cfr. Una struttura, più modelli). Ogni modello presenta (o rappresenta) un aspetto particolare dell’infinito, di cui parla, trascurando altri aspetti, di cui parlano, invece, altri modelli. Insomma, misticismo dell’infinito, no grazie! Dell’infinito si può parlare all’infinito in tanti modi diversi. Solo quello ilozoistico o religioso, che riduce l’infinito all’Uno (alla Vico; vai alla pagina Forme di sapere), ci piace meno degli altri. La seconda conseguenza inibitoria della concezione ontologica dell’infinito è il vitalismo. Un momento. Come può essere inibitoria la fuorclusione dell'infinito, se magari favorisce il riferimento essenzialmente dinamico alla vita? Tutta la classicità ha fatto a meno dell'infinito con poche eccezioni e non si può dire che la classicità sia stata inibita. Devi spiegarlo. E lo spiego. In Goethe il vitalismo è imperante. Dai suoi frammenti teorici si propaga, identico a se stesso – cioè sterilmente – fino all’evoluzione creatrice di Bergson, e cinquant’anni dopo alla bioetica di Potter nonché alla più improbabile biopolitica di Foucault. Nella natura esisterebbe uno slancio vitale, unico e indivisibile, che anima tutto ed è tutto in tutti – è la definizione di panteismo cara all’apostolo Paolo. Il vitalismo è oggi il paradigma dell’antiscientificità. Non per questo è obsoleto. Vive e vegeta, perché fornisce al potere del momento la base ontologica necessaria al governo della vita. (En passant – e sembra una contraddizione –, il vitalismo sopprime praticamente ogni considerazione di infinitezza, pur incarnando – e questo è il paradosso – la somma perfezione dell’infinito. Con il vitalismo l’infinito, da premessa per l’esercizio della scienza moderna, si eclissa per la seconda volta nel cono d’ombra aristotelico. E insieme al tramonto dell’infinito, ecco la nuova alba del principio di ragion sufficiente. Già nel secondo libro della Metafisica Aristotele aveva dimostrato che quella di infinito (per lui l’indefinito per eccellenza) e di causa prima (per lui la cosa meglio definita) sono nozioni incomparabili e incompatibili. L’eziologismo ringrazia il vitalismo per avergli dato una mano a sopprimere l’infinito nella culla.) A questo punto dovrebbe cominciare a diventare chiara la modalità inibitoria della messa fuori discorso dell'infinito. Tolto l'infinito, togli al pensiero la sua fonte di variabilità. L'infinito, non essendo uno, precisamente non essendo categorico, promuove la pluralità del pensiero, appena il pensiero si avvicina ad esso. Tolto l'infinito, l'ortodossia, che è una in sé, pur se accompagnata da un coro di eresie, riprende il proprio dominio paralizzante sul pensiero. Se poi l'ortodossia è vitalistica, come lo sono alcune ortodossie religiose in Occidente, in particolare la cattolica, il gioco è fatto. Vivrai di certo, avrai anche la vita eterna, ma senza pensieri. Una felicità paradisiaca. Peccato che il vitalismo sia il paradigma freudiano. ? Purtroppo, devo usare un tono assertivo, che certi mi rimproverano. Ma, nonostante le apparenze, le cose stanno proprio come dico io. E' questione di logica. Se c’è un principio vitale, c’è la causa che fa vivere tutto ciò che vive. Nel vitalismo nulla è causa di se stesso: neanche il moto inerziale, il passaggio del calore da un corpo caldo a uno freddo, la radioattività, le mutazioni genetiche, la nascita e la morte delle specie biologiche, i sogni, i lapsus, i transfert… Tutto è causato dalla causa prima che è la vita. Insomma, Freud ha bevuto alla fonte del vitalismo di Goethe l’eziologismo, che poi ha riversato nella propria metapsicologia delle pulsioni. Ma quel Goethe, non meno di questo Freud, sono da dimenticare in quanto non sono scientifici, o peggio, sono scienziati dilettanti. Sono, cioè, gente inibita, la quale crede che si possa fare scienza, quindi psicanalisi, senza ricorrere alla formalizzazione matematica. Alcuni di loro, poi, vengono santificati come "classici", tanto la gente è loro grata di averla messa al riparo dalla matematica, magari combinando scienza con poesia (Goethe dixit). La passione dell'ignoranza è impudica. Non disdegna di farsi bella con le penne di pavone della poesia. In ultima analisi, dal punto di vista filosofico, Goethe fu un fenomenologo ante litteram. Sviluppa questa tesi Enzo Paci in un volume inedito di 200 pagine, di cui a cura di A. Morazzoni sono stati pubblicati alcuni Frammenti da una lettura fenomenologica di Goethe in "aut aut" (277-278, 1997, pp. 4-18). Senza entrare nell'argomento, qui mi limito a segnalare la pericolosa vicinanza originaria della psicanalisi alla fenomenologia, legata presumibilmente alla comune frequentazione di Freud e Husserl ai seminari viennesi di von Brentano, che a loro volta reintroducevano nella cultura ottocentesca mitteleuropea Aristotele (come se non bastasse Schopenhauer). Per vie tortuose il marchio fenomenologico arriverà a segnare anche la psicanalisi di Lacan (v. Lacan fenomenologo), che nei suoi Ecrits mostra a suo modo di apprezzare Goethe, in particolare il vitalismo del Wilhelm Meister (cfr. J. Lacan, La psychanalyse et son enseignement (1957), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 446). Un punto da sviluppare, che qui lascio in sospeso, è proprio il rapporto tra vitalismo e funzione del falso maestro - funzione necessaria alla trasmissione della dottrina vitalistica in quanto, non conoscendo le normali vie della trasmissione scientifica, basate sulla formulazione e sulla confutazione di congetture, il vitalismo ha bisogno di guru e di profeti che lo annuncino e lo diffondano come ortodossia all'interno delle loro sette. Per completezza e onestà intellettuale, sulla scienza dilettantesca di Goethe, in particolare sulla sua improbabile Teoria dei colori, riporto un giudizio meno severo del mio. Cito dalla Storia della fisica di Mario Gliozzi: "Per Goethe l'interesse per la teoria dei colori non fu un passeggero capriccio d'artista, ma una passione che lo tenne occupato per buona parte della sua vita e alla quale dedicò numerosi scritti. Dopo essere stato newtoniano, lanciò violenti attacchi contro Newton, che accusava di aver considerato soltanto l'aspetto fisico dei colori, con la pretesa di spiegarli unicamente con la diversità dei raggi. Secondo Goethe, i colori chimici sono permanenti e inerenti ai corpi, mentre i colori fisici sono temporanei e sorgono dalla mescolanza di luce e ombra. Si trattava di vecchie idee, che ormai erano state superate da un pezzo." (Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 396). Quel che di nuovo emerge in Goethe è la fallacia fenomenologica, che sarà ripresa e ribadita dal padre della fenomenologia, Husserl, un secolo dopo. Il fenomenologo pretende fondare una filosofia come scienza rigorosa. Per far ciò parte dalla scienza cartesiana come portato imprescindibile della modernità. Fin qui nessuna fallacia. Il fenomenologo introduce la fallacia nel momento in cui individua la carenza specifica della scienza cartesiana: la carenza del soggetto che istituisce tale scienza. Da Husserl fino a Lacan si sente dire che la scienza cartesiana fuocluderebbe il soggetto. Il poeta - Goethe - il filosofo - Husserl - lo psicanalista - Lacan - si incaricano, allora, di ovviare a questa mancanza. Pretendono reintrodurre nella scienza il suo soggetto, rendendola rigorosa. La fallacia è tutta qui. Il soggetto della scienza esiste già ed è già operante in ogni pratica scientifica. E' il soggetto del dubbio cartesiano, che ritorna in ogni congettura scientifica, in ogni sua dimostrazione, in ogni sua confutazione. Non c'è alcun bisogno di reintrodurlo, perchè non è stato mai fuorcluso dalla scienza. Sarebbe come voler portare a temperatura maggiore l'acqua che sta già bollendo: una pretesa letteralmente metafisica, che va al di là della fisica. In effetti, la tesi lacaniana che la scienza fuorcluda il soggetto è metafisica. Per la precisione, è l'espressione ammodernata della vecchia metafisica spiritualista, secondo la quale la scienza cartesiana non darebbe accesso alla vita dello spirito. C'è sempre Pascal, cioè la religione, contro Descartes, cioè la scienza moderna. * Acquisito il punto della fenomenologia in Goethe, all'analista dovrebbe interessare la questione se pure Freud, in quanto goethiano, sia stato fenomenologo. Mentre sono ormai praticamente certo della fenomenologia di Lacan, l'ipotesi di Freud fenomenologo mi pare meno difendibile. E' vero che in Freud ci sono riferimenti all'intenzionalità, soprattutto inconscia, ma sono soprattutto l'elaborazione "topica" e il tentativo, benché fallimentare, di valorizzare il "fattore quantitativo", con le connesse considerazioni economiche, che mi paiono distanziare Freud dalla fenomenologia e dalla sua fallacia. Il problema, tuttavia, merita maggiori approfondimenti, date le incertezze epistemologiche di Freud e i suoi critici riferimenti aristotelici. * Comincio dalla considerazione teorica. Il vitalismo, grazie all’assetto pesantemente eziologico che induce in teoria, inibisce fortemente la formalizzazione scientifica. Lo dico apertamente: il vitalismo è il vero nemico della matematica. “Molto presto, sulla base delle mie qualità e condizioni, ho dovuto rivendicare a me stesso il diritto di considerare, indagare, comprendere la natura nelle sue origini più semplici e segrete, come nelle sue creazioni più evidenti e sorprendenti, anche senza la collaborazione della matematica”. (J. Wolfgang Goethe, “Sulla matematica e il suo abuso, nonché sul periodico predominio di singoli rami nella scienza”, 12 novembre 1826, postumo. Weimar Ausgabe, Abt. 2, 11, pp. 78, traduzione nostra). Non è il caso di ripercorrere la storia, per altro quella di una banale inibizione epistemica, dei rapporti di Goethe con la matematica. Per questo rimando a Goethe und die Mathematik e alla raccolta di saggi di Jean Starobinski, Azione e reazione del 1999 (trad. C. Colangelo, Azione e reazione. Vita e avventure di una coppia, Einaudi, Torino 2001). In questa sede mi limito a segnalare soltanto che il vitalismo fa due operazioni tipiche e tipicamente antiscientifiche: 1. personalizza la natura; Il corollario di questa impostazione è la “fuorclusione” della matematica. Non esistono vincoli matematici nei processi naturali. Esistono solo gli effetti di una causa efficiente trascendentale. Lo scienziato racconta gli effetti di natura come un romanziere racconta il suo romanzo. La matematica non rientra per principio nella sua impresa. Dopo la considerazione teorica viene quella pratica. se l’analisi è vitalistica, O, paradossalmente, potrebbe, se fosse un processo epistemico che acquista velocità man mano che procede. Tutto ciò premesso dobbiamo buttare via Freud insieme a Goethe? Certo che no. Qualcosa dell'uno e qualcosa dell'altro va conservato. Il principio epistemico freudiano è irrinunciabile per lo psicanalista. Non ci sarebbe psicanalisi senza la congettura che esista un sapere che non si sa di sapere ancora, infelicemente chiamato da Freud Unbewusste. Ma anche il principio goethiano di verità, già recepito da Freud nelle sue Costruzioni in analisi, merita attenta considerazione. "Verità è fecondità". Più in dettaglio: "Vi è un segno decisivo che distingue nel modo più sicuro la verità dall'illusione: la verità agisce sempre in modo fecondo e favorisce che la possiede e la alimenta; l'errore, invece, rimane lì, morto e sterile, anzi va considerato come una necrosi, dove la parte che muore impedisce alla viva di risanarsi". (J.W. Goethe, Filosofia della natura, in Kunst und Altertum, VI, I, 1827). Note (1) Da bravo e coscienzioso medico – Freud rimane medico anche quando ironizza sui "paraocchi della mitologia medica che accecano" (cfr. Traumdeutung, Cap. VII, GW, p. 591) – Freud è terrorizzato dalla possibilità che la sua invenzione clinica: il metodo delle associazioni libere – libere da finalità coscienti – sia tacciata di arbitrarietà. Allora, nel settimo capitolo della Traumdeutung (e successivamente non solo lì) corre ai ripari. Da bravo e coscienzioso medico, Freud si inventa una causa agente. Attribuisce al pensiero inconscio una finalità, naturalmente inconscia, che si evidenzierebbe una volta sospesa la finalità cosciente (l’intenzione). Ad essa sottostanno le Vorstellungen delle associazioni libere, che la rivelerebbero nel momento stesso in cui tentano di nasconderla. Freud propone, così, una dottrina aristotelica della preterintenzionalità, che esclude qualunque casualità oggettiva e qualunque spontaneità soggettiva. Arriva a dire: “Ein Denken ohne Zielvorstellungen läßt sich durch unsere eigene Beeinflussung unseres Seelenlebens überhaupt nicht herstellen“ („In generale, fuori dall’influsso della nostra vita psichica non si può produrre un pensiero privo di rappresentazione finalistica “. S. Freud, “Die Traumdeutung” (1899), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. II/III, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 533).
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