LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"Das Beste, was du wissen kannst,
Darfst du den Buben doch nicht sagen.
"

Quanto di meglio sai
ai ragazzini certo non dirai.

Goethe, Faust I, Scena II dello Studio

citato due volte da Freud nella Traumdeutung

pagina creata il 16 settembre 2009 aggiornata il 24 settembre 2009

 

 

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In Goethe troviamo molti elementi del vocabolario di Freud
Jean Starobinski, Azione e reazione, 1999

In questa pagina tento un’operazione alla quale non sono assuefatto e per la quale probabilmente non dispongo degli strumenti tecnici “giusti” per realizzarla. Intendo l’analisi storica dell’eziologismo freudiano. Non sono uno storico ma uomo di scienza. Tuttavia, da uomo di scienza, non posso non chiedermi da dove provenga la coazione freudiana a cercare la causa di ogni fenomeno psichico: dal sogno ai lapsus della vita quotidiana.
Probabilmente la mia domanda sembrerà peregrina a chi sia assuefatto alla versione ortodossa della metapsicologia freudiana, la quale facilmente riconosce che “le pulsioni sono i nostri miti” e che il pensiero mitologico è la forma ancestrale del pensiero.
State contente umane genti al quia – diceva un grande poeta.
Saggiamente gli ortodossi non si pongono domande inquietanti. Sanno benissimo – e a loro basta sapere solo questo – che le pulsioni freudiane non sono istinti biologici ma cause psichiche. “Causa” va inteso nel senso aristotelico del termine. Le pulsioni sessuali sono cause efficienti. Il loro effetto hic et nunc è la soddisfazione sessuale, per altro sempre limitata e parziale, destinata perciò a ripetersi in vista di un’inattingibile realizzazione piena. La pulsione di morte è la causa finale o intenzionale di tutto l’ambaradan psichico, nel senso che tende a un effetto sempre differito e perciò sempre riproposto: l’abbassamento delle tensioni psichiche.
Ma chi si svegliasse dal letargo dell’ortodossia freudiana non potrebbe fare a meno di chiedersi: cosa c’entrano le giustificazioni eziologiche dell’accadere psichico con la grande intuizione freudiana dell’inconscio? La supposizione che esista un sapere che non si sa di sapere ancora, come può funzionare da “causa” di alcunché? In termini di eventi, dove sta il nesso tra un evento irrealizzato – il sapere che non si sa – e la parziale realizzazione di un evento – la soddisfazione sessuale o la tranquillità interiore?
La mia ipotesi è che tale nesso non esista, ma sia stato da Freud surrettiziamente introdotto nella propria dottrina per giustificare, sulla base del superiore principio di ragion sufficiente, la propria grandiosa, ma forse per lui logicamente insostenibile, ipotesi di esistenza dell’inconscio. Freud avrebbe ragionato così:

“Se l’inconscio produce effetti ragionevolmente giustificati, allora è ragionevole ammettere che esista come loro causa”. (1)

Messa così, per via dell’apparente ragionevolezza, anche lo sprovveduto di sottigliezze logiche subodora la fallacia. Ma se esiste una fallacia, la sua esistenza va storicamente giustificata, cioè ne va trovata la causa. Con un piccolo ma inevitabile pericolo: di cadere nella stessa fallacia eziologica che si vuol giustificare storicamente. Ma tant’è, ho deciso di correre questo pericolo.

*
Nelle 7000 pagine delle Sigmund Freud Gesammelte Werke il nome di Goethe ricorre 110 volte, circa il doppio di Shakespeare. È una presenza non indifferente, con una concentrazione significativamente superiore alla media – il doppio – nella Traumdeutung: 21 ricorrenze in 700 pagine. Segnalo questo dettaglio perché considero la Traumdeutung l’opera di Freud più compromessa in senso eziologico. Tutto il “lungo ragionamento” freudiano per “spiegare il sogno” –  questo è il significato letterale di Traumdeutung – si riduce a una requisitoria, degna del più tosto pubblico ministero, contro il soggetto del sogno. A te che sogni Freud imputa di avere desideri preterintenzionali, il cosiddetto contenuto latente del sogno. Che, guarda caso, esiste in ogni sogno. Freud era medico ma – come si sa – dalla medicina al diritto, attraverso il ponte della medicina legale, il passo è brevissimo. È il passo che porta Freud dall’eziologia della tubercolosi, dovuta al bacillo di Koch, all’eziologia dell’isteria, dovuta alle scene sessuali infantili.
La pretesa di questa pagina è di mostrare come dall’eziologia dell’isteria si arrivi, per una via non tanto prevedibile, al Goethe Institut.
Secondo l’agiografo freudiano, Ernst Jones (E. Jones, Vita e opere di Freud (1953), vol. III, trad. A. Novelletto, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 367), Freud si dedicò agli studi naturalistici - intendi: medici - dopo aver letto Darwin. Dalla Traumdeutung risulta, invece, che il nucleo ispiratore delle inclinazioni (pseudo)naturalistiche del giovane Freud fu la lettura del saggio dello Pseudo-Goethe La natura (Natur), che riporto come inno pietistico al panteismo naturalistico, composto nel 1783 da uno svizzerotto molto “verde”, tale Georg Christopher Tobler, presunto inventore del cioccolato “Toblerone”. Per darsi una patina più credibile di scientificità, nell’Autobiografia Freud cita insieme come propri ispiratori scientifici sia Goethe sia Darwin. Ma non bisogna cascarci. Nella pagina Freud evoluzionista? dimostro che Freud non fu mai autenticamente darwiniano. Non perché nelle GW il nome di Darwin ricorra quattro volte meno di quello di Goethe (27 in tutto, 0 nella Traumdeutung), ma perché tutta la metapsicologia freudiana delle pulsioni ha un impianto eziologico, mentre Darwin rifuggiva dall’eziologia, soprattutto da quella finalistica, tanto che nel suo On Origin of Species la stessa parola evolution non figura mai.

Detto questo, mi resta da dimostrare che Freud fu effettivamente goethiano.
La pensavano così anche gli organizzatori del Premio Goethe che nel 1930 conferirono a Freud il loro premio. Quindi, non è solo un mio pallino. Ma, al di là delle evidenti apparenze, la dimostrazione rigorosa dell’ascendenza goethiana di Freud è delicata, forse peregrina.
Certo, c’è la testimonianza di “Un ricordo d’infanzia tratto da ‘Poesia e verità’ di Goethe’” (1917), dove chiaramente Freud si identifica al proprio idolo giovanile. Ma forse si possono portare argomenti più “oggettivi” e – quel che più conta – più ricchi di conseguenze.

In un particolare, ammesso che esista la storiografia scientifica, la mia ricostruzione storica è scientifica. Infatti, è altamente congetturale e, quindi, facilmente confutabile. Un buon inizio per fare della storia scientifica. L’assioma da cui parto è:

tra Goethe e Freud l’anello di congiunzione è Spinoza.

I riferimenti espliciti a Spinoza nelle GW sono solo due e indiretti. Ma tutta l’opera di Freud risente dell’influsso spinozista – mediato da Goethe, come dimostreremo. Sentiamo cosa scrive Bodei:

“Anche se le due forme di pensiero devono essere tenute rigorosamente separate, non si può restare colpiti, leggendo Freud, dai punti di contatto non secondari tra le sue posizioni e quelle di Spinoza. Le tesi che l’anima funzioni come un “automa spirituale”; che la mente è in sostanza idea corporis, ma soprattutto che gli affetti, considerati in senso quantitativo e legati al conatus, siano tanto più in nostro potere e la mente ne patisca tanto meno, quanto più li conosciamo […] Inoltre, come in Freud, il fanciullo è spinto a rinunciare all’onnipotenza del pensiero e del desiderio a causa del rafforzamento del principio di realtà, così in Spinoza la formazione di idee adeguate ci induce ad abbandonare spontaneamente quel che si sa essere mero frutto dell’immaginazione, qualcosa di razionalmente impossibile […]. Anche in Spinoza, infine, al pari di Freud, il passaggio da un bene inferiore a uno superiore non avviene per effetto del riconoscimento esclusivamente intellettuale della superiorità di un’idea sull’altra, ma per effetto dell’abbandono da parte del nostro appetito, di quel che in precedenza ci appariva un bene e che ora invece non desideriamo più, pur non cessando di essere potenzialmente un bene qualora la nostra vis existendi debba diminuire. E, siccome il desiderio non è che appetito accompagnato da coscienza, ne segue che la coscienza si modifica assieme all’appetito”. (R. Bodei, Geometria delle passioni: paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1994 pp. 327-328).

Più esplicito e più facilmente documentabile è  il riferimento di Goethe a Spinoza. Cito dallo Studio da Spinoza (Studie nach Spinoza) del 1784-1785, pubblicato postumo (Weimar Ausgabe, Abt. 2, vol. 11, pp. 315-319, trad. mia):

“Il concetto dell’esserci [Dasein] e della perfezione è un unico e stesso concetto. Seguendolo per quanto ci è possibile, diciamo di pensare l’infinito. L’infinito però, o l’esistenza perfetta, non può essere pensato da noi”.

Un nonnulla separa la mia lettura di Spinoza da quella di Goethe. Con entusiasmo romantico maggiore del mio, corroborato dall’innesto di un maturo illuminismo, Goethe sembra proporre come oggetto delle proprie passioni niente di meno che l’infinito. Ma attenzione! Di quale infinito si tratta? Di un infinito ontologico, recita l’incipit allo studio su Spinoza. Si tratta, cioè, di “un ente assolutamente infinito e sommamente perfetto”, come lo definisce lo stesso Spinoza nella seconda dimostrazione dell’undicesimo teorema della prima parte della sua etica. Resta da chiedersi se l’interpretazione ontologica di filosofi epistemici come Cartesio e Spinoza sia non dico  adeguata – in parte lo è, essendo perfino Cartesio l’autore di una prova ontologica dell’esistenza di dio, basata sulla sua perfezione – ma feconda. Come si può all’interno dell’ontologia concepire un’etica diversa dal semplice adeguamento alla legge ontica “senza intervento del sapere”. Non mi sembra che sia questa l’etica intellettualistica, che Spinoza propone a partire dall’amor intellectualis dei. C’è amore intellettuale per dio, proprio perché non è possibile adeguarsi a dio. Ma se non c’è adeguamento, svanisce l’essere dell’ente e a maggior ragione una pratica etica adeguata.

"Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi!"
. (Inf. XXVI 122-123)

Ed ecco la prima conseguenza inibitoria della concezione ontologica dell’infinito. “L’infinito però, o l’esistenza perfetta, non può essere pensato da noi”. L’infinito, pur presentato – direi in modo ilozoistico –  come somma perfezione, è inconcepibile e ineffabile. Questo teorema di teologia negativa non è moderno. Forse non è neppure spinoziano. Il deus sive natura di Spinoza diventa sotto la penna di Goethe una dea natura più simile all’“eterno femminino” che a una congettura scientifica. La personificazione della natura che il vitalismo propone e sovrappone al panteismo spinoziano è resa efficacemente dalla ben nota storiella.
Una cavia torna nella gabbietta del laboratorio tutta contenta e dice alle altre:
– Sapete una cosa? Ho ammaestrato il dottore!
– No! Come hai fatto? chiede un’altra cavia.
– Semplice... ogni volta che attraverso il labirinto, lui mi dà da mangiare.

Non solo. L’infinito spinoziano, sotto forma di causa sui, non è certamente l'ineffabile infinito di Goethe. All’interno della concezione epistemica di Spinoza, dove il falso non esiste, perché il falso non è il contrario ontologico del vero, ma è il sapere meno ben saputo del “vero” sapere (che è quello di dio), l’infinito si può conoscere e se ne può parlare. Parzialmente, naturalmente, cioè, stando a Spinoza, “in modo falso”.

Oggi, in logica matematica si parla di strutture non categoriche. Sono strutture di cui si possono presentare modelli diversi tra loro non equivalenti (cfr. Una struttura, più modelli). Ogni modello presenta (o rappresenta) un aspetto particolare dell’infinito, di cui parla, trascurando altri aspetti, di cui parlano, invece, altri modelli. Insomma, misticismo dell’infinito, no grazie! Dell’infinito si può parlare all’infinito in tanti modi diversi. Solo quello ilozoistico o religioso, che riduce l’infinito all’Uno (alla Vico; vai alla pagina Forme di sapere), ci piace meno degli altri.

La seconda conseguenza inibitoria della concezione ontologica dell’infinito è il vitalismo.

Un momento. Come può essere inibitoria la fuorclusione dell'infinito, se magari favorisce il riferimento essenzialmente dinamico alla vita? Tutta la classicità ha fatto a meno dell'infinito con poche eccezioni e non si può dire che la classicità sia stata inibita. Devi spiegarlo. E lo spiego.

In Goethe il vitalismo è imperante. Dai suoi frammenti teorici si propaga, identico a se stesso – cioè sterilmente – fino all’evoluzione creatrice di Bergson, e cinquant’anni dopo alla bioetica di Potter nonché alla più improbabile biopolitica di Foucault. Nella natura esisterebbe uno slancio vitale, unico e indivisibile, che anima tutto ed è tutto in tutti  – è la definizione di panteismo cara all’apostolo Paolo. Il vitalismo è oggi il paradigma dell’antiscientificità. Non per questo è obsoleto. Vive e vegeta, perché fornisce al potere del momento la base ontologica necessaria al governo della vita.

(En passant – e sembra una contraddizione –, il vitalismo sopprime praticamente ogni considerazione di infinitezza, pur incarnando – e questo è il paradosso – la somma perfezione dell’infinito. Con il vitalismo l’infinito, da premessa per l’esercizio della scienza moderna, si eclissa per la seconda volta nel cono d’ombra aristotelico. E insieme al tramonto dell’infinito, ecco la nuova alba del principio di ragion sufficiente. Già nel secondo libro della Metafisica Aristotele aveva dimostrato che quella di infinito (per lui l’indefinito per eccellenza) e di causa prima (per lui la cosa meglio definita) sono nozioni incomparabili e incompatibili. L’eziologismo ringrazia il vitalismo per avergli dato una mano a sopprimere l’infinito nella culla.)

A questo punto dovrebbe cominciare a diventare chiara la modalità inibitoria della messa fuori discorso dell'infinito. Tolto l'infinito, togli al pensiero la sua fonte di variabilità. L'infinito, non essendo uno, precisamente non essendo categorico, promuove la pluralità del pensiero, appena il pensiero si avvicina ad esso. Tolto l'infinito, l'ortodossia, che è una in sé, pur se accompagnata da un coro di eresie, riprende il proprio dominio paralizzante sul pensiero. Se poi l'ortodossia è vitalistica, come lo sono alcune ortodossie religiose in Occidente, in particolare la cattolica, il gioco è fatto. Vivrai di certo, avrai anche la vita eterna, ma senza pensieri. Una felicità paradisiaca.

Peccato che il vitalismo sia il paradigma freudiano.

?
Ma cosa dici mai? E la pulsione di morte con il ritorno all’inorganico dove la metti?

Purtroppo, devo usare un tono assertivo, che certi mi rimproverano. Ma, nonostante le apparenze, le cose stanno proprio come dico io. E' questione di logica.

Se c’è un principio vitale, c’è la causa che fa vivere tutto ciò che vive.
Se esiste il principio vitale, nulla resta inspiegato eziologicamente – a livello di causa efficiente o finale.
Se c’è un principio vitale, nulla è spontaneo.

Nel vitalismo nulla è causa di se stesso: neanche il moto inerziale, il passaggio del calore da un corpo caldo a uno freddo, la radioattività, le mutazioni genetiche, la nascita e la morte delle specie biologiche, i sogni, i lapsus, i transfert… Tutto è causato dalla causa prima che è la vita. Insomma, Freud ha bevuto alla fonte del vitalismo di Goethe l’eziologismo, che poi ha riversato nella propria metapsicologia delle pulsioni. Ma quel Goethe, non meno di questo Freud, sono da dimenticare in quanto non sono scientifici, o peggio, sono scienziati dilettanti. Sono, cioè, gente inibita, la quale crede che si possa fare scienza, quindi psicanalisi, senza ricorrere alla formalizzazione matematica. Alcuni di loro, poi, vengono santificati come "classici", tanto la gente è loro grata di averla messa al riparo dalla matematica, magari combinando scienza con poesia (Goethe dixit). La passione dell'ignoranza è impudica. Non disdegna di farsi bella con le penne di pavone della poesia.

In ultima analisi, dal punto di vista filosofico, Goethe fu un fenomenologo ante litteram. Sviluppa questa tesi Enzo Paci in un volume inedito di 200 pagine, di cui a cura di A. Morazzoni sono stati pubblicati alcuni Frammenti da una lettura fenomenologica di Goethe in "aut aut" (277-278, 1997, pp. 4-18). Senza entrare nell'argomento, qui mi limito a segnalare la pericolosa vicinanza originaria della psicanalisi alla fenomenologia, legata presumibilmente alla comune frequentazione di Freud e Husserl ai seminari viennesi di von Brentano, che a loro volta reintroducevano nella cultura ottocentesca mitteleuropea Aristotele (come se non bastasse Schopenhauer). Per vie tortuose il marchio fenomenologico arriverà a segnare anche la psicanalisi di Lacan (v. Lacan fenomenologo), che nei suoi Ecrits mostra a suo modo di apprezzare Goethe, in particolare il vitalismo del Wilhelm Meister (cfr. J. Lacan, La psychanalyse et son enseignement (1957), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 446). Un punto da sviluppare, che qui lascio in sospeso, è proprio il rapporto tra vitalismo e funzione del falso maestro - funzione necessaria alla trasmissione della dottrina vitalistica in quanto, non conoscendo le normali vie della trasmissione scientifica, basate sulla formulazione e sulla confutazione di congetture, il vitalismo ha bisogno di guru e di profeti che lo annuncino e lo diffondano come ortodossia all'interno delle loro sette.

Per completezza e onestà intellettuale, sulla scienza dilettantesca di Goethe, in particolare sulla sua improbabile Teoria dei colori, riporto un giudizio meno severo del mio. Cito dalla Storia della fisica di Mario Gliozzi:

"Per Goethe l'interesse per la teoria dei colori non fu un passeggero capriccio d'artista, ma una passione che lo tenne occupato per buona parte della sua vita e alla quale dedicò numerosi scritti. Dopo essere stato newtoniano, lanciò violenti attacchi contro Newton, che accusava di aver considerato soltanto l'aspetto fisico dei colori, con la pretesa di spiegarli unicamente con la diversità dei raggi. Secondo Goethe, i colori chimici sono permanenti e inerenti ai corpi, mentre i colori fisici sono temporanei e sorgono dalla mescolanza di luce e ombra. Si trattava di vecchie idee, che ormai erano state superate da un pezzo." (Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 396).

Quel che di nuovo emerge in Goethe è la fallacia fenomenologica, che sarà ripresa e ribadita dal padre della fenomenologia, Husserl, un secolo dopo. Il fenomenologo pretende fondare una filosofia come scienza rigorosa. Per far ciò parte dalla scienza cartesiana come portato imprescindibile della modernità. Fin qui nessuna fallacia. Il fenomenologo introduce la fallacia nel momento in cui individua la carenza specifica della scienza cartesiana: la carenza del soggetto che istituisce tale scienza. Da Husserl fino a Lacan si sente dire che la scienza cartesiana fuocluderebbe il soggetto. Il poeta - Goethe - il filosofo - Husserl - lo psicanalista - Lacan - si incaricano, allora, di ovviare a questa mancanza. Pretendono reintrodurre nella scienza il suo soggetto, rendendola rigorosa.

La fallacia è tutta qui.

Il soggetto della scienza esiste già ed è già operante in ogni pratica scientifica. E' il soggetto del dubbio cartesiano, che ritorna in ogni congettura scientifica, in ogni sua dimostrazione, in ogni sua confutazione. Non c'è alcun bisogno di reintrodurlo, perchè non è stato mai fuorcluso dalla scienza.

Sarebbe come voler portare a temperatura maggiore l'acqua che sta già bollendo: una pretesa letteralmente metafisica, che va al di là della fisica. In effetti, la tesi lacaniana che la scienza fuorcluda il soggetto è metafisica. Per la precisione, è l'espressione ammodernata della vecchia metafisica spiritualista, secondo la quale la scienza cartesiana non darebbe accesso alla vita dello spirito. C'è sempre Pascal, cioè la religione, contro Descartes, cioè la scienza moderna.

*

Acquisito il punto della fenomenologia in Goethe, all'analista dovrebbe interessare la questione se pure Freud, in quanto goethiano, sia stato fenomenologo. Mentre sono ormai praticamente certo della fenomenologia di Lacan, l'ipotesi di Freud fenomenologo mi pare meno difendibile. E' vero che in Freud ci sono riferimenti all'intenzionalità, soprattutto inconscia, ma sono soprattutto l'elaborazione "topica" e il tentativo, benché fallimentare, di valorizzare il "fattore quantitativo", con le connesse considerazioni economiche, che mi paiono distanziare Freud dalla fenomenologia e dalla sua fallacia. Il problema, tuttavia, merita maggiori approfondimenti, date le incertezze epistemologiche di Freud e i suoi critici riferimenti aristotelici.

*
Già che sono in argomento, accenno ad altre due possibili conseguenze, a loro volta conseguenze di secondo livello della conseguenza principale del vitalismo: l’eziologismo. Sono ancora conseguenze inibitorie: una inibisce la teoria, l’altra la pratica.

Comincio dalla considerazione teorica. Il vitalismo, grazie all’assetto pesantemente eziologico che induce in teoria, inibisce fortemente la formalizzazione scientifica. Lo dico apertamente: il vitalismo è il vero nemico della matematica.
E qui siamo al secondo piano del Goethe Institut. Goethe pretende di cercare le “leggi” di natura senza scomodare la matematica. Nel 1826 scriveva:

“Molto presto, sulla base delle mie qualità e condizioni, ho dovuto rivendicare a me stesso il diritto di considerare, indagare, comprendere  la natura  nelle sue origini più semplici e segrete, come nelle sue creazioni più evidenti e sorprendenti, anche senza la collaborazione della matematica”. (J. Wolfgang Goethe, “Sulla matematica e il suo abuso, nonché sul periodico predominio di singoli rami nella scienza”, 12 novembre 1826, postumo. Weimar Ausgabe, Abt. 2, 11, pp. 78, traduzione nostra).

Non è il caso di ripercorrere la storia, per altro quella di una banale inibizione epistemica, dei rapporti di Goethe con la matematica. Per questo rimando a Goethe und die Mathematik e alla raccolta di saggi di Jean Starobinski, Azione e reazione del 1999 (trad. C. Colangelo, Azione e reazione. Vita e avventure di una coppia, Einaudi, Torino 2001). In questa sede mi limito a segnalare soltanto che il vitalismo fa due operazioni tipiche e tipicamente antiscientifiche:

1. personalizza la natura;
2. considera le “leggi” di natura come l’espressione della sua volontà segreta.

Il corollario di questa impostazione è la “fuorclusione” della matematica. Non esistono vincoli matematici nei processi naturali. Esistono solo gli effetti di una causa efficiente trascendentale. Lo scienziato racconta gli effetti di natura come un romanziere racconta il suo romanzo. La matematica non rientra per principio nella sua impresa.
E forse varrebbe la pena accennare a un fatto di estrema attualità. Una delle scienze oggi epistemologicamente più vivaci, la quale in un certo senso si avvicina all’ideale goethiano di scienza sine matematica, è proprio la biologia, a patto di intenderla come biologia darwiniana. Si tratta, infatti, di una scienza molto descrittiva, poco formalizzata, per nulla eziologica (tranne che in certi ultradarwiniani iperselezionisti). Ma è una questione di principio. Darwin non scrive proclami contro la matematica. Anzi, la nascente matematica biologica, o biometria, minaccia di essere più ricca e interessante di certa matematica deterministica del continuo, quale è stata prodotta nell’Ottocento in fisica classica.

Dopo la considerazione teorica viene quella pratica.
Un problema che assillava più gli  allievi del loro maestro Freud era la durata sempre più lunga delle analisi. È chiaro perché. Gli allievi erano più di Freud “medici dentro”. La psicanalisi, presentata al mondo come psicoterapia, rischiava di passare per una terapia molto poco efficiente, per non dire proprio inefficace. Allora, ne andava dell’esistenza professionale degli psicanalisti-psicoterapeuti, i quali, capeggiati da Ferenczi, spingevano Freud a inventare una psicanalisi più breve. Secondo me, Freud sapeva benissimo perché la sua psicanalisi non sarebbe mai diventata breve. Era destinata a diventare “interminabile”, come forsennatamente l’edizione ufficiale traduce l’unendliche freudiano. Perciò con aria sorniona Freud snobbava le richieste di chi chiedeva analisi più brevi. Ecco presumibilmente come  tra sé e sé Freud nachgrübelte:

se l’analisi è vitalistica,
se va alla ricerca della causa prima nello strato roccioso biologico,
se la causa prima è spostata sempre più indietro nell’inorganico all’infinito,
allora l’analisi non può concludere in un tempo breve.

O, paradossalmente, potrebbe, se fosse un processo epistemico che acquista velocità man mano che procede.
Ma le dottrine psicanalitiche vigenti escludono questa possibilità cinematica alla Galilei. Le dottrine psicanalitiche vigenti vogliono mantenere una psicanalisi interminabile a vantaggio dei maestri che indottrinano i propri adepti al ritmo di cinque sedute settimanali per vent’anni. Le dottrine psicanalitiche vigenti, in fondo, fanno comodo agli stessi adepti, che per decenni si accomodano su comodi divani, dove pagano il diritto di non pensare e di adagiarsi in una perenne ipnosi.

Tutto ciò premesso dobbiamo buttare via Freud insieme a Goethe?

Certo che no. Qualcosa dell'uno e qualcosa dell'altro va conservato. Il principio epistemico freudiano è irrinunciabile per lo psicanalista. Non ci sarebbe psicanalisi senza la congettura che esista un sapere che non si sa di sapere ancora, infelicemente chiamato da Freud Unbewusste. Ma anche il principio goethiano di verità, già recepito da Freud nelle sue Costruzioni in analisi, merita attenta considerazione. "Verità è fecondità". Più in dettaglio:

"Vi è un segno decisivo che distingue nel modo più sicuro la verità dall'illusione: la verità agisce sempre in modo fecondo e favorisce che la possiede e la alimenta; l'errore, invece, rimane lì, morto e sterile, anzi va considerato come una necrosi, dove la parte che muore impedisce alla viva di risanarsi". (J.W. Goethe, Filosofia della natura, in Kunst und Altertum, VI, I, 1827).

Note

(1) Da bravo e coscienzioso medico – Freud rimane medico anche quando ironizza sui "paraocchi della mitologia medica che accecano" (cfr. Traumdeutung, Cap. VII, GW, p. 591) – Freud è terrorizzato dalla possibilità che la sua invenzione clinica: il metodo delle associazioni libere – libere da finalità coscienti – sia tacciata di arbitrarietà. Allora, nel settimo capitolo della Traumdeutung (e successivamente non solo lì) corre ai ripari. Da bravo e coscienzioso medico, Freud si inventa una causa agente. Attribuisce al pensiero inconscio una finalità, naturalmente inconscia, che si evidenzierebbe una volta sospesa la finalità cosciente (l’intenzione). Ad essa sottostanno le Vorstellungen delle associazioni libere, che la rivelerebbero nel momento stesso in cui tentano di nasconderla. Freud propone, così, una dottrina aristotelica della preterintenzionalità, che esclude qualunque casualità oggettiva e qualunque spontaneità soggettiva. Arriva a dire: “Ein Denken ohne Zielvorstellungen läßt sich durch unsere eigene Beeinflussung unseres Seelenlebens überhaupt nicht herstellen“ („In generale, fuori dall’influsso della nostra vita psichica non si può produrre un pensiero privo di rappresentazione finalistica “. S. Freud, “Die Traumdeutung” (1899), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. II/III, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 533).
Insomma, per Freud non  esistono pensieri spontanei e creativi. Ogni pensiero ha un finalismo inconscio o preterintenzionale. Con questa mossa medicalizzante Freud trasforma l'inconscio da sapere che non si sa di sapere in banale sapere finalizzato a qualche scopo pratico, sessuale o di morte. Giustamente il freudismo è stato tacciato di miseria intellettuale. A noi, che nel secolo breve abbiamo visto l'alba e il tramonto di tante miserie ideologiche, la miseria del freudismo non fa molto effetto. Interessa, piuttosto, un'altra considerazione. Per salvare la clinica, Freud perde la scienza, reintroducendo nel discorso scientifico il principio di ragion sufficiente, parente stretto del principio di autorità, che era già stato rifiutato dagli scienziati del XVII secolo. Ma, se è vero quel che scrive 28 anni dopo: “In der Psychoanalyse bestand von Anfang ein Junktim zwischen Heilen und Forschen” („Sin dall’inizio in psicanalisi cura e ricerca insieme stanno e insieme cadono“. S. Freud, “Nachwort zur “Frage der Laienanalyse (1927), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIV, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 295), di Freud si può dire che, se perde la scienza, perde anche la clinica. Infatti, oggi la clinica psicanalitica si è ridotta a psicoterapia, che non è psicanalisi, perché non è scientifica. Tanto andava precisato a beneficio di quegli avvocati, che devono difendere dei poveri analisti, accusati di esercitare abusivamente la professione psicoterapica, e di quei giudici che sono chiamati a sentenziare sul caso. (Mi sono espresso più ampliamente sul problema nel documento Psicanalisi = Psicoterapia?)
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